“Le parole sono importanti” diceva Nanni Moretti qualche anno fa in Palombella rossa, ma anche le singole immagini hanno il loro peso. D’altronde questa è la civiltà dell’immagine, in cui le persone spesso vengono giudicate quasi esclusivamente per come appaiono, per come si vestono e non per come sono realmente.
La cultura dell’immagine è da preferire, sostengono da decenni gli esperti di marketing americano, perché richiede meno sforzo di comprensione, ma è sempre vero? Davvero le immagini sono immediatamente codificabili all’occhio umano, davvero vengono sempre e comunque interpretate correttamente?
Il problema della percezione visiva è stato affrontato dagli psicologi già dalla seconda metà dell’Ottocento, quando ancora si riteneva la percezione uno specchio fedele della realtà, a differenza del cinema, la nuova arte che proiettava 24 fotogrammi al secondo, su uno schermo, donando così alle immagini la materialità che la fotografia non aveva. Le immagini sullo schermo ottengono un’impressione di realtà, grazie ad un fenomeno di tipo psicologico, generato esso stesso da un codice tecnologico, ovvero“ l’effetto φ” o fenomeno del movimento apparente, secondo la definizione di Marie Michel, “ Description/analyse”, in Cahiers du cinema, 1975. Questo effetto crea l’illusione del movimento prodotto dalla cinepresa.
La nozione di impressione di realtà è un concetto basilare per la teoria del film ed era conosciuto dagli psicologi già dal 1840, ma fu la SCUOLA DELLA GESTALT, fondata in Germania tra il 1912 ed il 1915 da M. Wertheimer, K. Koffka, W. Köhler e K. Lewin, a sostenere che l’esperienza è una forma (Gestalt), costituita al suo interno da strutture organizzate, è un tutto organizzato da cui derivano le varie parti.
Il gestaltismo, in opposizione alla psicologia associazionistica allora dominante, riteneva che la percezione non fosse una sensazione, o una somma di sensazioni visive e auditive, ma una struttura unica, che parla a tutti i sensi, perché è la manifestazione continua di un movimento mediante la proiezione di segnali luminosi. Oltre ad essi, l’impressione di realtà è stata studiata negli anni ’50 da Van der Benk o Wallon dell’Insitut de Filmologie di Parigi, da André Bazin, teorico del realismo e dalla semiologia di Metz nel 1965.
Invece tra il 1969 ed il 1971 la rivista Cinéthique di Eric Rohmer e Marcelin Pleynet sostenne la necessità di “decostruire” l’impressione di realtà, che era alla base della concezione idealistica, per cui la cinepresa poteva riprodurre la visione speculare solo illusoriamente, perché il film poteva soltanto riunire una serie di frammenti staccati, ma che sembrassero verosimili. Sopraggiungeva poi il processo di identificazione dello spettatore a rendere il film credibile, cioè solo se lo spettatore era predisposto a credere nel film. Oltre all’impressione di realtà è importante anche il concetto di situazione cinematografica, ossia quel complesso di schermo, sala e spettatore, in cui si dispiegano i processi di comprensione e memorizzazione del film.
Francesco Casetti, in Teorie del cinema: 1945-1990, passa in rassegna le diverse teorie a riguardo, dalla psicologia cognitiva a quella evolutiva. Innanzitutto già nel 1949 René e Bianca Zazzo, per la Revue internationale de Filmologie, avevano capito che l’efficacia ed il successo del linguaggio cinematografico dipendono da valori quali la capacità dello spettatore di assumere più punti di vista, di effettuare dei salti nel tempo e di unire spontaneamente dei dati dispersi, durante la proiezione di uno stesso film.
Nel 1952 Fraisse e De Montmollin hanno svolto delle ricerche approfondite sulla memoria immediata e differita, ed hanno scoperto che le persone all’inizio ricordano le parti più importanti del film, ma dopo un certo intervallo di tempo conservano del film solo un quadro globale e non molto particolareggiato.
Esperimenti condotti dall’Università Sorbona di Parigi negli anni Sessanta dimostrarono come la maggior parte delle persone, a cui veniva proiettato un filmato di un paio di minuti, ricordassero bene molti dei particolari, ma vi erano anche intervistati che aggiungevano o toglievano dei personaggi a quelli proposti. La maggioranza del campione aveva una percezione corretta del filmato proposto ed un buon ricordo di esso, ma non erano immuni delle distorsioni, nei soggetti più disattenti o stanchi. Esistevano cioè deficit cognitivi. I vari studi dispersi in più ambiti, psicologia, psichiatria, ottica, filosofia del linguaggio, oltre che storia dell’arte fecero comprendere la necessità di un approccio scientifico al cinema, da parte della filmologia, ma verso la metà degli anni Settanta si passa dall’approccio gestaltico a quello ECOLOGICO di J. J. GIBSON, per il quale bisogna recepire le strutture invarianti presenti nel flusso di stimoli della realtà.
La percezione corretta non deriva da schemi interpretativi astratti, ma dagli organi di senso, soprattutto dai mutamenti del campo ottico dello spettatore, che al cinema vengono resi dai movimenti di macchina.
Al cinema quindi conta la meccanica della visione, non l’interpretazione del film da parte del pubblico.
Invece i teorici successivi sono stati influenzati dalla PSICOLOGIA COGNITIVISTA di JULIEN HOCHBERG e VIRGINIA BROOKS del 1978-9, per cui la percezione non è la registrazione delle informazioni presenti nella realtà, ma la loro elaborazione in base a schemi mentali interpretativi, a configurazioni confermate o meno dal resto della visione. Il film è per essi un surrogato fedele della realtà e va interpretato in base a una serie di mappe cognitive che lo spettatore ha nel suo cervello.
Per Bordwell nel 1985 suoni ed immagini si fanno senso, senza una spiegazione semiotica, mentre Jacques Aumont in L’image del 1990 propone la sintesi tra psicologia e studi di rappresentazione visiva.
Un altro aspetto significativo è stato studiato dalla psicologia BEHAVIORISTA di WATSON e LUND già negli anni trenta, ed è il rapporto uomo-ambiente. Infatti il comportamento umano viene visto come l’adattamento dell’organismo all’ambiente, e si può scomporre in:
- stimolo, cioè l’impatto dell’ambiente sull’individuo;
- risposta, cioè la reazione all’ambiente;
- rinforzo, gli effetti dell’azione che mutano le reazioni all’ambiente.
L’unità stimolo/ risposta esprime quindi gli elementi di ogni forma di comportamento umano.
Importanti sono anche il contesto in cui si verifica lo stimolo e le precedenti esperienze che di esso hanno fatto i soggetti. I mezzi di comunicazione, specie il cinema, inviano degli stimoli alla massa delle persone, che però reagiscono diversamente a seconda della propria personalità. I destinatari mediano la realizzazione degli effetti dello stimolo, poiché ogni stimolo suscita nel singolo destinatario un diverso interesse. Tra stimolo e risposta intervengono dei processi psichici diversi tra gli individui, specie per il legame cinema-inconscio, che verrà studiato in seguito da un punto di vista comunicativo, in quanto il cinema è una forma di espressione artistica popolare, che si rivolge cioè ad un vasto pubblico e che comunica, veicola dei messaggi, che possono essere più o meno fraintesi, secondo l’approccio semiotico di Umberto Eco e degli altri semiologi degli anni Sessanta, da Chomsky a Mac Luhan, il teorico del villaggio globale e della società di massa. Da lì il passo al cinema cassetta di Blockbuster è breve.

di Monica Ravalico