L’analisi della sensazione a cui Merleau-Ponty si dedica inizia con la feroce critica alla riflessione, scagliandosi innanzitutto contro la fenomenologia husserliana. La grande presunzione della riflessione, infatti, è quella di rendere oggetto l’immanenza regredendo dall’atteggiamento naturale (negando cioè tale atteggiamento), ignorando il fatto che il progressivo allontanamento da tale atteggiamento comporta la conseguente perdita del senso. Secondo la fenomenologia proposta da Husserl è l’immanenza stessa, in quanto tale, ad essere sponda ultima da cui partire, e proprio in ciò consiste l’errore. Rifiutando in toto la riflessione, Merleau-Ponty valorizza il concetto di corpo vivo nei termini di luogo privilegiato, quale campo di localizzazione delle proprie sensazioni. Solo nella soggettività può essere individuata una zona non localizzata ed estrapolabile, quale il mentale. La soggettività localizzata è ancora corpo vivo, nel senso che essa incarna sempre la coscienza. Il corpo vivo è caratterizzato per il fatto di essere corpo localizzato, corpo somatico e corpo come soggetto/oggetto. Identificare il corpo vivo sia come soggetto sia come oggetto di sensazione e di esperienza viene chiamato chiasma, termine designato che rappresenta l’esperienza paradigmatica del corpo vivo come tale. Il corpo vivo è un intreccio, giacché esso è sia «soggetto che sente» sia «oggetto che è sentito».
Una pecca della filosofia risiede nel fatto che essa pregiudica ciò che troverà in seguito per mezzo della riflessione, per cui si rende necessaria un’ operazione che respinga sia riflessione ed intuizione sia i modi in cui esse sono date; scopo di tale respingimento consiste nell’evitare che esse si installino in esperienze che non siano state ancora elaborate e che, in quanto tali, offrano contemporaneamente mescolati il soggetto e l’oggetto, e che forniscano perciò alla filosofia i mezzi per ridefinirli adeguatamente. Esperienze come parlare, vedere e pensare sono si tutte esperienze irrecusabili, ma sono al tempo stesso anche enigmatiche: esse hanno un nome in tutte le lingue e altrettanti significati – sia che siano propri o intesi quali sensi figurati – che rappresentano il richiamo inesistente ad un particolare fenomeno, che per quanto possa essere a noi familiare esso rimane alla sua origine sempre inspiegato. Il nostro visibile è in noi, riposa in noi come se fra noi e visibile vi fosse una fortissima relazione di interdipendenza (come quella sussistente fra la spiaggia ed il mare), ma che allo stesso tempo palesa l’impossibilità di fondersi con esso, poiché altrimenti la visione svanirebbe nel momento stesso della realizzazione per scomparsa o del visibile o di colui che vede.
Questo rosso che io vedo è un quale, ossia una pellicola d’ essere senza spessore, di cui sappiamo tutto ciò che c’è da sapere e sul quale non c’è nulla da dire. Questo rosso necessita di una messa a fuoco, emerge da un rossore in cui i propri occhi ed il proprio sguardo si immergevano e si perdevano prima di fissarlo; questo rosso non è tale se non collegandosi dalla propria postazione ad altri tipi di rosso che lo circondano, o ad altri colori che attira o che lo attirano, che respinge o che lo respingono. Se si tenesse conto di tutte le partecipazioni di un colore ci renderemmo conto che esso, nella propria nudità, non è un modo d’ essere indivisibile ed offerto nudo ad una visione che non può che essere o totale o nulla, ma è una sorta di stretto tra orizzonti esterni ed orizzonti interni sempre aperti, cioè un qualcosa che tocca e fa risuonare diverse zone del mondo colorato, quale cristallizzazione dell’essere colorato. Lo sguardo avvolge, palpa le cose visibili, come se non si trovasse con esse in un rapporto armonico e prestabilito, tale che Io non guardo un caos ma delle cose ben determinate. Necessario è che fra questa esplorazione e ciò che essa insegna, ossia fra i movimenti che si compiono e ciò che si tocca, vi sia un qualche rapporto di principio secondo cui essi non sono mere deformazioni dello spazio corporeo, ma l’apertura al mondo del tattile; ciò è possibile solo se la mia mano, così come è sentita dall’interno, è accessibile anche dall’esterno, cioè solo se essa è percepibile anche per l’altra mano, se fa in qualche modo parte delle stesse cose che tocca. Grazie a questo incrociarsi del toccante con il toccabile, i movimenti propri di un «Io-soggetto» che tocca si incorporano in quello stesso mondo che tocca, i quali vengono a loro volta portati dalla stessa parte in cui sta il «mondo-toccato». Nel tatto troviamo sia un sentimento passivo del corpo e dello spazio che occupa, sia un autentico «tatto del tatto» quando la mano destra tocca la mano sinistra nel momento in cui essa tocca le cose, in virtù del quale il soggetto-toccante passa dalla propria condizione di colui che tocca a quella di soggetto/oggetto-toccato.
Così come ogni esperienza di ciò che è visibile viene data ad ognuno relativamente ai movimenti dei bulbi oculari (quindi dello sguardo), il visibile appartiene al tattile in virtù delle proprie qualità tattili: ogni visibile è ricavato dal tangibile, in quanto tutto ciò che è tattile viene promesso al visibile, così come il tangibile stesso non può far a meno di una qualche visibilità. Lo stesso corpo che vede e tocca è a sua volta visto e toccato, per cui tangibile e visibile sono parte del medesimo mondo. Benché visibile e tattile siano intrecciati non si confondono, in quanto pur essendo parti totali non per questo sono sovrapponibili. Se la visione è la palpazione con lo sguardo occorre che essa si inscriva nell’ordine di ciò che essa svela, per cui colui che guarda non può essere estraneo a quel mondo guardato; colui che guarda e vede può possedere il visibile solo se ne è posseduto, cioè solo se egli è uno dei visibili a propria volta, capace di vedere gli altri visibili proprio in virtù del fatto che egli stesso ne fa parte. Quello spessore che sta fra il vedente e la cosa vista rappresenta il mezzo di comunicazione tra essi, è costitutivo della visibilità della cosa come corporeità del vedente. Il corpo frapposto non è né «cosa» né «tessuto connettivo», ma sensibile per sé. Il corpo unisce alle cose del mondo mediante la sua ontogenesi, saldando l’una all’altra le sue parti, unendo le proprie labbra: è il corpo e solo esso, in quanto essere a due dimensioni, che può condurci alle cose stesse. L’ essere carnale, inteso come latenza o presenza di un’ assenza, è prototipo dell’essere di cui il nostro corpo proprio è «senziente sensibile» e, contemporaneamente, «oggetto sentito», cioè corpo fenomenico ed oggettivo. Il nostro corpo comanda per noi il visibile ma lo lascia a noi stessi inspiegato.
Con il concetto di carne non si intende la materia in senso proprio, cioè intesa come corpuscoli d’ essere che sommandosi formerebbero una qualche figura (nemmeno il visibile è quel materiale psichico condotto all’essere da cose esistenti di fatto ed agenti del proprio corpo, poiché esso non è né un fatto, sia esso materiale o spirituale, né una rappresentazione dello spirito). Piuttosto, la carne è quell’elemento intermedio fra l’individuo spazio-temporale e l’idea, per cui è essa stessa elemento dell’essere. Pur non essendo né un fatto né una somma di essi, la carne aderisce al «luogo dell’ adesso», nel senso che è fatticità in senso proprio, tale per cui un fatto sia fatto. Le cose che «si toccano» e «si vedono» rappresentano il limite in sé, in quanto l’intera operazione si svolge internamente a me. Viceversa, quando una delle mani tocca l’altra il mondo di ognuna sboccia in sé quello dell’altra, poiché l’operazione è reversibile a volontà, appartenendo entrambe le mani ad una sola coscienza; affinché le mie mani sbocchino in una sola coscienza non basta che esse siano date ad una medesima coscienza, ma occorre anche che esse appartengano ad un medesimo corpo, in quanto facenti parte di un unico organo d’ esperienza. Ogni visione ed ogni toccamento, pur avendo il proprio visibile ed il proprio tattile, sono legati ad ogni altro visibile ed ogni altro tattile in modo tale da formare con essi una sola esperienza di uno stesso corpo in un medesimo mondo.
Grazie alla reversibilità del visibile e del tangibile, l’insieme delle cose del mondo ci è sempre aperto in un ambito persuasivo del visibile e del tangibile che si estende oltre le cose che Io vedo e tocco. Peculiarità del visibile è il fatto di essere la superficie di una profondità inesauribile, la quale permette che esso possa essere aperto ad altre visioni oltre alla propria che, realizzandosi, sottolineano l’illusione solipsistica di credere nel superamento di ogni auto-superamento. Movimento, tatto e visione, applicandosi l’uno all’altro e a sé stessi, si fondono nella carne del mondo, nel senso che il proprio corpo apporta al mondo ciò che Io vedo che è lo stesso che esso stesso vede. Fra i miei movimenti ve ne sono alcuni che non si dirigono in nessun luogo, come quelli del volto, quelli della gola e della bocca che formano il grido, che finiscono in suoni che possono essere uditi e posso udire. Se Io posso udire la mia voce è perché essa è legata alla mia vita come non lo è la voce di nessuno; così come vi è riflessività del tatto, della vista e del sistema che essi formano, vi è anche riflessività dell’udito che ha in me la propria inscrizione sonora ed il suo eco motorio. Tale reversibilità è espressione del parlare e del pensare nel mondo.
Ai limiti del mondo muto e solipsistico il mio visibile si conferma quale esemplare di una visibilità universale, ad un sublime della carne che sarà spirito o pensiero. Il pensiero, quale rapporto a sé e al mondo e rapporto all’altro, si stabilisce nelle tre dimensioni contemporaneamente. La carne è nuovamente l’avvolgimento del visibile sul corpo vedente e del tangibile su corpo toccante, attestato in modo particolare nell’atto che vede il corpo «toccarsi» e «toccare» le cose: come tangibile discendente fra di esse e come toccante che le domina tutte, ricavando da ciò questo doppio rapporto. L’accordo fra me e le cose del mondo, secondo il quale Io presto loro il mio corpo proprio affinché vi inscrivano la loro somiglianza, è ciò che forma la propria visione, ossia la mia visione. L’esperienza tattile di un punto nel medesimo momento non combacia mai perfettamente, proprio perché le mie mani fanno parte dello stesso corpo, tale che sono in grado di udirmi sia dall’interno che dall’esterno. Non conosceremmo le idee di cui parliamo se fossimo privi di corpo e di sensibilità, anzi in questo senso sarebbero totalmente inaccessibili proprio perché, come tali, possono darsi solo in un’ esperienza carnale. Le idee stanno dietro le sensazioni, precedendole, che riceviamo dal mondo esterno, le quali sono riconoscibili dal loro essere particolari e sempre uniche, perfettamente distinte dalle altre ed ineguali di valore e significato. La stessa idealità pura non è priva di carne, anzi ne vive, nonostante si tratti di un’ altra carne. Quando la visione muta cade nella parola, e quando la parola vi si inscrive al suo posto, tutto ciò si effettua in virtù dello stesso fenomeno della reversibilità, che si manifesta sia come un’ esistenza carnale dell’idea sia come una sublimazione della carne. Sebbene la riflessione lasci inalterato il mistero intorno al mondo grezzo, non per questo esso va interrogato senza presupporre nulla. Tutto ciò che necessita di essere affermato circa il mondo non deve provenire dal mondo abituale, bensì dal mondo presente alla nostra vita, ovvero da ciò che sorge dall’esperienza propria, dal suo stato grezzo. La cosiddetta fede percettiva involge tutto ciò che si offre a noi genuinamente in un’ esperienza-fonte, secondo una veduta che per il singolo individuo è e non potrebbe essere concepita in modo più perfetto.


M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, ed. Bompiani