Sono ormai trascorsi quasi cent’anni da quando, nel 1914, Otto Rank, ispirato dalla sua passione per il teatro e la filosofia ed incuriosito dalla forza prorompente ed incisiva della nascente settima arte, presentò al già allora esimio dottor Sigmund Freud un manoscritto, che lo stesso padre della psicoanalisi dichiarò: «[…] rivelava un’intelligenza eccezionale» (1914), nonostante l’autore fosse un giovane diplomato presso una scuola professionale.

Da allora, e fino ai giorni nostri, “Der Doppelgänger” continua ad essere un testo ricco di fascino, nonché di notevoli spunti di riflessione, nonché di rottura con la visione del Doppio tramandata a partire dal ‘500.
Buona parte della letteratura compresa tra il periodo rinascimentale e la scienza positivista aveva, infatti, convogliato, nell’immaginario del Doppio, gli aspetti più destabilizzanti, destrutturanti e distruttivi della psiche, contrariamente a quanto trasmessoci da molte culture antiche del Doppio come Compagno, Gemello, Sosia, simbolo di individuazione, mezzo di raggiungimento di una coscienza e di un’autocoscienza piena e totale del mondo, dell’Io e del Sé. Ma è solo con l’avvento del Romanticismo prima, e della psicoanalisi poi, che nella cultura, nonché dell’anima dell’uomo occidentale si affianca, al valore della ragione, «[…]il fascino e l’inquietudine dello sdoppiamento dell’Io» (Vitta M., 1989, in Vadalà G., ibidem ), la magica e perturbante se-duzione del Doppio, una nuova forza dell’Io, rimasta in “ombra” sino ad allora.

Caposaldo di questa variazione sul tema è costituito proprio dal lavoro di Rank “Der Doppelgänger”, il quale prendendo spunto dal film “Lo studente di Praga” di Hans Heinz Ewers, «ci fa capire con estrema chiarezza che ci troviamo di fronte all’interessante e significativo problema del rapporto dell’uomo con il proprio io». In una Praga di inizio ‘800, Baldovino, studente povero in canna ed innamorato della contessa Margit, patteggia con il mago Scapinelli, per centomila fiorini, il diritto di prendere dalla sua camera ciò che desidera; il mago si impossessa, così, della sua immagine allo specchio, che diventa il suo sosia e persecutore, al punto tale da portare Baldovino a sparargli, ferendo a morte sé stesso.

Per Rank la figura del Doppio altro non è se non un “simbolo” dell’amore che l’io prova per se stesso; l’incapacità di amare -costante di tutti i protagonisti di opere fondate sul tema del Doppio- coincide, con uno sviscerato amore «narcisistico per la propria immagine e per il proprio io», con una condizione di egocentrismo, al punto di vedersi anche fuori di sé, nonché di essere incapaci di poter amare qualcuno che non sia il proprio io. Questo «atteggiamento erotico» verso il proprio io è, altresì, possibile solo poiché i sentimenti distruttivi e negativi vengono scaricarti sul perturbante alter ego. Eppure qualcosa in questi Narcisi si oppone all’esclusivo amore per se stessi: il narcisismo viene rimosso o attraverso «la paura e la ripugnanza per la propria immagine», la quale inizia a perseguitare l’io, oppure attraverso «la perdita dell’ombra e del riflesso», (Rank O., 1914). Il diniego, la proiezione e la formazione reattiva, tipiche del paranoico con un sé narcisistico, usano come oggetto proprio l’io anzi, più esattamente l’immagine dell’io, che diventa pertanto la prova della messa in atto di tali meccanismi. Da una parte creare un Doppio significa creare un’immagine del tutto simile all’io corporeo per poter negare la morte ed il pensiero della morte attraverso lo sdoppiamento dell’Io; l’idea della morte per il narcisista diventa sopportabile solo se c’è un altro io che assicura una “seconda vita”. Dall’altra parte distruggere questo Doppio significa padroneggiare la morte. L’omicidio del Doppio/suicidio dell’Io traducono queste dinamiche in una quella catastrofe: l’io ama e apprezza troppo se stesso per potergli nuocere, e così il male che non riesce ad infliggere a sé, lo infligge al suo alter ego, ignaro di starsi, con quell’atto, autocondannandosi ad una morte che risulterà apparentemente indolore, poiché è “un altro” a morire.

Qualche anno più tardi (1919) Freud riprende proprio il motivo del Doppelgänger ne per “Il perturbante”, attribuendovi il carattere perturbante al che il sosia è una formazione appartenente ai tempi psichici remoti e ormai superati, nei quali tale formazione aveva comunque un significato più amichevole. Il sosia è diventato uno spauracchio così come gli dèi, dopo la caduta della loro religione, si sono trasformati in dèmoni» (Freud S., ibidem). Lo stesso Autore individua altre due dinamiche tipiche del gioco di rispecchiamenti : la regressione a momenti evolutivi in cui non sono ancora nettamente tracciati i confini tra l’Io e gli altri, tra mondo interno e mondo esterno ed il ritorno involontario e la ripetizione non intenzionale di situazioni già vissute (ovvero la coazione a ripetere). Ma ripetere cosa? Come già scritto in “Introduzione al narcisismo” (1914), Freud sottolinea che «L’uomo si è dimostrato[…] incapace a rinunciare a un soddisfacimento di cui ha goduto nel passato. Non vuole essere privato della perfezione narcisistica della sua infanzia e se […] non è riuscito a serbare questa perfezione negli anni dello sviluppo, si sforza di riconquistarla nella nuova forma di un ideale dell’Io. Ciò che egli proietta avanti a sé come proprio ideale è il sostituto del narcisismo perduto dell’infanzia, di quell’epoca, cioè, in cui egli stesso era il proprio ideale». Ecco che allora il sentimento del perturbante origina da eventi angosciosi soggetti a rimozione: se questa è la «natura segreta del perturbante», allora comprendiamo perché la parola heimlich includa significati che si spingono fino al suo contrario: l’elemento perturbante non è né nuovo né estraneo, bensì è qualcosa di familiare alla vita psichica fin dall’infanzia, qualcosa estraniatosi da questa a causa del processo di rimozione. Con Schelling potremmo, quindi, riassumere che «il perturbante è qualcosa che avrebbe dovuto restare nascosto e che invece è affiorato» (Freud S., 1919). L’ unheimlich è ciò che un tempo fu heimlich; il prefisso negativo “un” è frutto della rimozione (anche se non tutto ciò che è rimosso, può avere effetti perturbanti).
Il Doppio, dunque, non è specchio della scissione dell’Io, ma residuo di un tempo psico-mitologico , in cui egli poteva essere un “amico”, in cui vigeva l’ «onnipotenza dei pensieri», il «subitaneo appagamento dei desideri», processi alla cui realtà abbiamo smesso di credere. L’heimlich-unheimlich insorge ogni qual volta il nostro esame di realtà viene messo in crisi dagli antichi convincimenti che credevamo superati; nel caso del Doppio, nella cui immagine è possibile riconoscere se stessi, il dilemma da sciogliere è se l’immagine contemporaneamente identica, eppure altra, che appare dinnanzi, sia fantastica oppure reale.

Un esempio di ciò è dato da uno stesso episodio autobiografico di Freud (1919).

«Ero seduto, solo, nello scompartimento del vagone-letto quando, per una scossa più violenta del treno, la porta che dava sulla toeletta attigua si aprì e un signore piuttosto anziano, in veste da camera, con un berretto da viaggio in testa, entrò nel mio scompartimento. Supposi che avesse sbagliato direzione nel venir via dal gabinetto che si trovava tra i due scompartimenti, e che fosse entrato da me per errore; saltai su per spiegarglielo ma mi accorsi subito, con grande sgomento, che l’intruso era la mia stessa immagine riflessa nello specchio fissato sulla porta di comunicazione. Ricordo tuttora che l’apparizione non mi piacque affatto» (Freud S., 1919).
Qualcosa aveva impedito a Freud di riconoscere se stesso, ma cosa? Nel riflesso specchiato di quell’uomo egli stava vedendo la propria esistenza di uomo anziano e, piuttosto che riconoscersi in essa si spaventa, evitando così di riconoscere anche gli aspetti altri del Sé.
Nonostante, quindi, Freud non abbia mai trattato in maniera organica e sistematica il tema del Doppio, possiamo fuor da ogni dubbio affermare, con Carotenuto (2002) che tutta la teoria psicoanalitica sia una “scienza del Doppio”; innegabile è, infatti, in essa la presenza di entità, di coppie analoghe e contrarie, la cui mescolanza co-istituisce la personalità dell’individuo nella sua interezza e nella sua complessità.

«Il perturbante è dappertutto nell’opera freudiana. Fosse solo per una ragione: che Freud svela l’Inconscio, e nel suo stesso disvelamento […] il perturbante si palesa. E allora esso è ovunque: è la sensazione che ci tiene avvinti a un film che ci fa paura, ma che al contempo ci affascina […]. Il perturbante è in tutto quello che la nostra creatività riesce a produrre oltrepassando i confini del sogno e con esso legandosi in una sintesi estrema. Il perturbante è in tutto quello che continuiamo ad agire pur avendone compreso la disattività, in quello che mangiamo controvoglia e nel maglione che non riusciamo a mettere da parte. Come un oggetto transizionale. […] Nell’infanzia esso affonda le sue radici: nel mondo del possibile, dove realtà e immaginazione, esperienze e vissuti si fondono e confondono nella verità psichica […]. Nell’ambivalenza dei ricordi dei pazienti, nel loro stare continuamente al confine tra realtà e revisione immaginativa (Freud) ha compreso qualcosa che li ha sconvolti, perturbati; che per l’uomo non vi è nulla di totalmente reale. […] Freud ha aperto un cancello: che separava noi da noi stessi. E ci ha permesso di guardarvi dentro. Ha mostrato l’inconscio, non lo ha scoperto del tutto, ma lo ha mostrato, con la veemenza di chi vuole che si aprano gli occhi su una verità troppo dolorosa», (Carotenuto A., 2002).


Immagine: Magritte - Il doppio segreto