Eremiti cybernauti
Riflessioni sulla sindrome di Hikikomori
Li chiamavano eremiti, si rifugiavano in luoghi irraggiungibili e selvaggi, vivevano nell'isolamento cercando un contatto con Dio e rifuggendo quello con gli uomini... Li chiamavano schizoidi ed erano persone che rifuggivano il contatto umano, chiudendosi in se stesse e distanziandosi emotivamente dall mondo e dai suoi affanni... Li chiamano Hikikomori e sono giovani che hanno deciso di chiudersi in una stanza e di non uscire più, usando come unico contatto per il mondo un pc collegato a Internet, con il quale raggiungere persone lontanissime tenendo a distanza quelle vicine. La chiusura e la fuga dalle relazioni umane esiste da sempre, appare inquietante oggi in quanto non sinonimo di ricerca di una santità o saggezza, un rifugiarsi in sé per trovare una via di individuazione particolare e unica, ma piuttosto di paura del mondo, degli altri, di disattendere le aspettative che l'Altro ha su di sé. Il termine viene dal Giappone, dove questa sindrome sta assumendo dimensioni inquietanti, oltre un milione, il 2%, gli adolescenti colpiti. L'adolescenza diventa senza via d'uscita, il malessere prende il sopravvento tanto da spingere i ragazzi a lasciare la scuola, gli amici, la famiglia stessa, da un giorno all'altro e chiudersi nella propria stanza, rifiutandosi di uscire. La camera, come un utero protettivo, facilita la regressione a uno stadio in cui non bisogna fare nulla, anche i pasti vengono attesi e corrisposti da madri preoccupate e impotenti. I ragazzi sono intrappolati in una spirale di totale impotenza con con l'illusione opposta di onnipotenza: Internet sempre più veloce li fa viaggiare oltre i confini del loro sé, per costruirsi una falsa identità, idealizzata e ideale. Ma è tutta finzione, irrealtà che si contrappone a una realtà troppo difficile da accettare. Realtà fatta di aspettative molto alte: la cultura nipponica alleva bambini in maglietta e calzoncini in inverno, per farli diventare efficienti, produttivi, perfetti. Già iscritti all'università a quattro o cinque anni, spinti al successo, spesso vittime di bullismo da parte dei coetanei quando questo successo non è così facile da raggiungere o all'opposto quando l'invidia per la bellezza e la bravura sono insopportabili, sono bambini costantemente sotto pressione. E quando l'adolescenza bussa alla porta, l'unica forma di ribellione a questo scenario è quella di non-vivere, di rinchiudersi nel bozzolo ma non per diventare farfalla, quanto piuttosto per rimanerci.
E' una condizione culturale che riguarda solamente il Giappone? Purtroppo no, anche in Italia il fenomeno di giovani reclusi si sta diffondendo. Anche se la nostra cultura che non ha gli aspetti competitivi, di rigida severità del Giappone, il rischio di rimanere intrappolati in un'adolescenza senza fine non manca anche ai ragazzi "nostrani": la possibilità di comunicare con il globo intero stando fermi nella propria stanza, tramite social network, chat, mail, messaggini e quant'altro fa gola ai giovanissimi. Del resto il bisogno di esternare i propri pensieri, i propri sogni, i propri desideri profondi, non è una novità delle ultime generazioni: quanti "anta" ricordano i vecchi "diari" con tanto di lucchetto, ai quali si affidavano i segreti più intimi? Solo che allora era un parlare con sé, ora è un parlare con tanti "amici" sparsi per il mondo, ma che restano virtuali, non reali; il rischio di scambiare questi due piani, il virtuale e il reale è alto. Se una volta, dopo aver scritto pagine di "caro diario" si doveva comunque uscire di casa per incontrare l'altro, ora non serve più: l'"amico di click" è molto più comprensivo, accogliente, sostenitivo (in apparenza) di quello in carne ed ossa. E allora perché faticare? Meglio rimanere nell'illusione di essere ammirati e cercati da chi è lontano che affrontare il rischio di esclusione o di rifiuto di chi è vicino.
di Mariolina Gaggianesi [Leggi i suoi articoli »]
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