Tutto ciò che sapevo quando sono stata scelta come volontaria nelle Filippine era solo che la mia destinazione sarebbe stata un centro che ospitava minori vittime di violenze ed abusi sessuali.
La legge locale prevede infatti l’allontanamento, a fini tutelativi e riabilitativi, della persona che denuncia l’abuso, avvenendo questi nella maggior parte dei casi in famiglia.
Nel quartiere di Cubao, nella periferia di Quezon City, è raro trovare bambini che non soffrano di denutrizione, di anemia e di infezioni causate dalle cattive condizioni igieniche. I genitori non incoraggiano i figli a frequentare la scuola, anzi, li spingono a lavorare anche a cinque/sei anni oppure li maltrattano, li violentano, li vendono.
Le Filippine sono un arcipelago di oltre 7.700 isole che hanno subìto la dominazione spagnola prima ed americana poi. 1.200.000 bambini vivono per strada, ed il numero di minori coinvolti nella prostituzione si aggira tra i 40.000 e i 75.000. Questo, oltre alla mia meta, era ciò che sapevo prima della mia partenza: quello che non sapevo era che avrei vissuto l’esperienza più emozionante della mia vita.
In questo contesto, trova giusta collocazione il lavoro delle suore salesiane Sisters of Mary Help of Cristians presenti nelle isole più grandi ed occupate in molteplici attività: alfabetizzazione di base, formazione professionale, nutrimento, cura ed evangelizzazione degli streetchildren, ma anche lotta alla prostituzione, alla tratta umana, allo sfruttamento minorile.
Nel marzo 2007 fui assegnata, per un breve periodo, al Mary Help of Christians Technology Center for Women di Mabalacat, un Istituto che permette a giovani donne in situazione di disagio di completare gli studi e realizzarsi professionalmente nell’ambito del turismo, della meccanica o dell’informatica. Mabalacat è un piccolo paese situato a nord-ovest di Manila utilizzato durante la seconda guerra mondiale come base militare americana che nel tempo si è trasformato in una località di turismo sessuale assiduamente frequentata per la maggior parte da canadesi, coreani e giapponesi attratti dalle giovanissime ragazze che lavorano nelle numerose case da appuntamento mascherate da karaoke.
Queste ragazze provengono per il 90% dall’isola di Mindanao, la più a sud ma anche la più povera delle Filippine, dove le famiglie, ingannate dalla speranza di un futuro migliore e dalla loro stessa mancanza di istruzione, vendono le proprie figlie in cambio di pochi soldi. La promessa di un lavoro in Europa come housekeeper o di un posto da cassieria al MC Donald di Singapore costringe queste piccole ed ignare vittime ad una vita di violenze, prostituzione e soprusi.
Le suore di Mabalacat, periodicamente, tolgono gli abiti monacali e vanno alla loro ricerca.
Una sera mi invitarono a partecipare a quelle che solo in seguito scoprii essere vere e proprie spedizioni finalizzate alla salvezza fisica e spirituale di queste ragazze: camminando per i quartieri a luci rosse incontrammo delle bambine ferme agli angoli delle strade o fuori dai locali, pronte ad invitare il ricco turista a consumare alcool e sesso. Truccate, agghindate, vestite come delle bambole, avvicinarle per noi era questione di secondi o i loro protettori ci avrebbero inseguite; scappavamo prima che qualche padrone impugnasse il fucile contro di noi.
Quella sera nessuna ci seguì; conquistammo solo tanti insulti, sputa e minacce.
Qualche settimana dopo due ragazze si presentarono al cancello dell’Istituto.
Erano uscite per comprare lo shampo e con questa scusa erano scappate dal loro padrone per raggiungere il riparo e la salvezza offerte dalle suore.
Le ragazze filippine sono vezzose: amano essere profumate e sempre in ordine; mettono sulle guance il borotalco per sembrare più chiare; provano a schiarirsi pelle e capelli con la candeggina; si pettinano e si guardano allo specchio. Sempre.
Poco importa se non hanno i denti ed il pettine l’hanno trovato chissà dove, a loro piace essere in ordine ed è per questo che l’acquisto dello shampo è per loro così importante da prevaricare bisogni essenziali come l’uso di assorbenti o di carta igienica.
Non ricordo i loro nomi, ma ricordo che tremavano. Provavo un senso di vergogna e tristezza nel vederle così spaventate e vulnerabili, tremendamente piccole e già tristemente donne.
Il lavoro con loro fu molto lungo e difficile: chi è abusato spesso cerca a sua volta di abusare; può regredire non essendo più capace di controllare l’urina; può cercare l’approvazione maschile assumendo con l’altro sesso un atteggiamento provocatorio o violento.
La violenza più grande che sono costrette a subire è la privazione della fiducia: nei confronti degli altri, di se stesse, del futuro. Quella speranza che accompagna il loro primo viaggio dalla povertà dell’isola all’illusione di una vita migliore diventa lentamente e dolorosamente disperazione, frustrazione, paura.
Degli eventi che hanno caratterizzato il mio volontariato questo è senza dubbio uno dei più incisivi e forse la consapevolezza del lieto fine lo rende per me ancora più emozionante.
Quello descritto è solo uno dei mille volti che le Filippine mi hanno mostrato. Nella mia mente vivono ancora i sorrisi senza denti degli streetchildren, gli occhi gonfi di lacrime delle bimbe che mi hanno accompagnato in aeroporto, la scritta che sventolava fuori dall’istituto il giorno della mia partenza “Thank you Ate Valentina, you’re one of us".



Immagine tratta da: www.caritas-sbt.it