Daniel C. Dennett rivisita l’antico significato attribuito al termine “funzionalismo”, assumendolo nella moderna concezione di funzionalismo come idea che il bello è bello perché fa bene quello che deve fare. In quest’ottica moderna il funzionalismo ha una propensione netta verso il minimalismo, ossia verso l’idea che le cose che realmente valgono siano meno di quanto si pensi. Per chiarire meglio ciò che intendo dire riguardo il funzionalismo minimalista esporrò un esempio: se si considera il cuore come nient’altro che un impianto che pompa il sangue nel sistema circolatorio, allora può, in linea di principio, essere sostituito da qualsiasi altra cosa o sistema che soddisfi completamente tale requisito senza provocare il minimo danno al sangue o al sistema circolatorio. I filosofi che sostengono la tesi del funzionalismo minimalista estendono questa idea fino ad invadere persino l’ambito riguardante la mente, affermando che essa sia fondamentalmente un sistema di controllo implementato dal cervello organico, e che, come tale, possa essere sostituibile da qualsiasi altra cosa capace di attuare le medesime funzioni di controllo. L’idea di base del funzionalismo minimalista è costituita dalla ferma convinzione che la materia effettiva del cervello – cioè le membrane ed i tessuti – sia del tutto irrilevante; potremmo benissimo, in linea di massima, sostituire le nostre membrane cerebrali con un insieme di chip e fili elettrici e, grazie a questi, continuare normalmente a pensare ed essere coscienti.

Questa concezione tanto forte del funzionalismo è conosciuta anche come tesi dell’Intelligenza Artificiale Forte (IA), determinata sia dalla convinzione che anatomia e chimica non contino affatto per quanto riguarda lo svolgimento di funzioni specifiche, sia dall’idea che la neurochimica abbia importanza unicamente per il fatto di permettere di sapere che i messaggeri chimici che si diffondono nel cervello possiedono ruoli funzionali decisivi, ossia ciò che essi fanno risultare rilevante al fine di quel determinato funzionamento. L’Intelligenza Artificiale Forte concepisce la mente come sistema identico al software di un computer: simile concezione fa si che le funzioni computazionali da essa svolte vadano ricercate nelle molecole cellulari del nostro cervello organico, ma fa anche si che le teorie conseguenti siano di stampo funzionalistico nel senso più ampio. Nel 1978 Patrick Hayes, uno dei più celebri ricercatori nel campo dell’IA, avanzò il progetto di formalizzare parte della fisica del senso comune o fisica ingenua, ossia quella fisica che tutti noi applichiamo alla vita quotidiana – una spugna che assorbe acqua, le cose cadono se vengono lasciate andare, ecc. – profiggendosi di compiere un’antropologia rigorosa che tentasse di categorizzare le false credenze scaturite dal senso comune, allo scopo di sottolineare con maggior evidenza quanto fosse facile formalizzare come vere teorie del tutto false. Il progetto di Hayes, denominato antropologia aprioristica, ha la funzione di scartare qualsiasi anomalia psicologica e classificare come assolutamente impossibile qualunque evento che dia anche una minima perplessità al senso comune. L’impresa di Hayes è atta a dimostrare lo scarso affidamento che possiamo attribuire alla psicologia del senso comune, poiché, come la fisica ingenua, non è assoluta, ossia non è retrospettivamente confermata da verità certe.

Quello che Dennett propone è l’adozione di un punto di vista in terza persona per la comprensione dei fenomeni della coscienza. Il punto di vista in terza persona è garantito dall’eterofenomenologia, quale percorso metodologico di indagine del tutto neutrale, quasi fosse il soggetto stesso un’entità aliena da quanto esperisce, che conduce dalla scienza fisica oggettiva ad un sistema per la descrizione fenomenologica soggettiva. L’eterofenomenologia è un metodo che comincia con la registrazione di dati grezzi relativi agli eventi fisici interni ed esterni rispetto ai soggetti, comprendendo in essi anche tutti gli elementi chimici, elettrici, acustici; successivamente alcuni dei segnali emessi dagli individui vengono assunti come veicolo di comunicazione, in modo tale da essere poi interpretati come espressioni di credenza. La trasformazione di dati grezzi necessita di un atteggiamento intenzionale, il quale impone di trattare i soggetti come se avessero credenze proprie lasciando però aperta la questione relativa al fatto se essi possano essere o no coscienti. Nell’affermare la propria neutralità, l’eterofenomenologia rappresenta la raccolta di cosa debba essere spiegato ma, da se, non spiega assolutamente nulla.
David Chalmers, uno dei maggiori obbiettori dell’eterofenomenologia filosofica, contesta che una simile trattazione, di stampo comportamentistico della credenza, risulta essere problematica in rapporto ad una visione in cui “avere una credenza fenomenologica” non implica soltanto uno schema di risposte, ma richiede che occorrano anche certe esperienze. Chalmers giustifica la propria obiezione affermando che la propria credenza di essere cosciente non è presente solo nei propri meccanismi cognitivi, ma anche e soprattutto nella personale evidenza diretta. Mediante l’esempio dello «zombie», Dennett replica alle critiche mosse da Chalmers in modo seguente:
«Lo zombie ha anch’egli la convinzione di avere un’evidenza diretta della propria coscienza, e che questa sia la sua giustificazione per la sua credenza di essere cosciente […] anche se le sue credenze fenomenologiche improvvisamente cessassero di essere credenze fenomenologiche, egli non ne sarebbe informato.»
Lo «zombie» non si accorgerebbe che le proprie credenze non sono più fenomenologiche, poiché egli non è cosciente ad esse. Data l’impressione zombica, così chiamata da Dennett, nasce l’esigenza di riconoscere il significato filosofico dei qualia e quale sia la loro natura.

Fissato che la maggior parte degli eventi che accadono nel proprio corpo e nel proprio cervello avvengono senza esserne direttamente coscienti, va osservato che vi sono alcuni eventi che hanno luogo nel proprio cervello di cui si ha conoscenza immediata, quali le esperienze soggettive: esse hanno qualità intrinseche (qualia), sono accessibili esclusivamente dall’Io in prima persona e assolutamente inaccessibili all’indagine oggettiva. Le qualità intrinseche, filosoficamente chiamate qualia, vengono associate ad una varietà di contenuti particolari. Non esiste una definizione condivisa di qualia, data anche la serie di polemiche nata intorno all’esistenza di simili qualità. Per poterci avvicinare al contenuto del termine qualia prendiamo, ad esempio, la visione del colore, cioè di come il colore viene soggettivamente visto quando percepiamo il rosso scarlatto delle fragole che stiamo guardando; dato che i qualia non sono caratteristiche oggettive della luce o delle condizioni ambientali che fanno apparire quel determinato tipo di rosso, se ne conclude dunque che il colore rosso scarlatto delle fragole è “in noi stessi”, è il puro effetto soggettivo determinato in noi alla vista delle fragole.

Esperimento mentale 1. Mary. L’esperimento mentale di Frank Jackson sulla scienziata del colore, Mary appunto, è un brillante esempio relativo all’argomentazione fin qui elaborata sulla definizione di qualia e su processi neurocognitivi del cervello. L’esperimento di Mary rappresenta uno scena immaginaria che fin dalla sua prima comparsa, nel 1982, ha attirato su di se l’attenzione di numerosi filosofi dediti allo studio delle intelligenze artificiali, non senza ovviamente critiche ed obiezioni al riguardo. La scena è la seguente:
«Mary è una brillante scienziata che, per qualche ragione, è costretta ad indagare il mondo da una stanza in bianco e nero attraverso uno schermo televisivo, anch’esso in bianco e nero. Nella sua prigione, Mary si specializza in neurofisiologia della visione, acquistando tutte le informazioni fisiche possibili su ciò che accade in noi quando vediamo, ad esempio, pomodori maturi o il cielo, e utilizza parole come “rosso” e “blu” per riferirsi a tali elementi. Scoprendo quali combinazioni di lunghezze d’onda dal cielo stimolino la retina, Mary è in grado di proferire con certezza l’enunciato “Il cielo è blu”.»

Due sono le domande che possono sorgere spontanee in seguito alla prima parte di questo esperimento: che cosa succede se a Mary viene concesso di uscire dalla sua stanza in bianco e nero? Apprenderà qualcosa? Parrebbe del tutto ovvio affermare che apprenderà qualcosa sul nostro modo di esperire la visione, ma una simile risposta equivale a dire che la sua precedente conoscenza era incompleta, mentre sappiamo bene che Mary ha studiato ed imparato tutto quello che c’era da sapere sui colori ed il modo di percepirli. Per capire se l’esperimento mentale è una buona pompa d’intuizione occorre che esso sia esaminato da tutte le angolazioni:
«[… ] i carcerieri di Mary, un giorno, decidono che sia giunto per lei il momento di vedere i colori, ma per la sua prima esperienza vogliono giocarle uno scherzo pitturando una banana matura blu. Essi non si sarebbero mai immaginati che Mary, vista la banana, avrebbe detto: ‟Volevate prendermi in giro! Le banane sono gialle, questa è blu!ˮ. Increduli e stupefatti, i carcerieri le chiedono come abbia fatto ad intuire il tranello, e Mary risponde loro: “Ricordatevi che io so ogni cosa si possa sapere sulle cause e sugli effetti della visione cromatica, per cui, prima che mi mostraste la banana tinta di blu, ero già a conoscenza di tutti i dettagli su quali sarebbero state le impressioni fisiche che avrebbero causato nel mio sistema nervoso un oggetto giallo o blu.”»

Mary ci dice quindi di non essere stata affatto sorpresa dalla propria esperienza del blu. È implicito che a apparirà assai difficile – se non impossibile – immaginare che Mary sappia così tanto sulle proprie disposizioni reattive al punto che l’effetto prodotto in lei dal blu non la sorprenda minimamente: pur ammettendo che Mary conosca perfettamente ogni risposta fisica alla visione dei colori nel proprio sistema cerebrale, dovrà essere comunque, sicuramente, sorpresa nel vedere di persona il blu piuttosto che un altro colore. A sostegno dell’impossibilità che Mary non sia affatto sorpresa vi si possono trovare G. Graham e T. Horgan, i quali, nel loro articolo Mary Mary Quite Contrary, forniscono due alternative all’esperimento mentale di Jackson operando una distinzione tra: il materialismo sottile (thin), che nega che Mary impari qualcosa dopo essere stata liberata, e il materialismo spesso (thick), che tenta invece di salvare il materialismo sostenendo la tesi dello sbigottimento di Mary di fronte ai colori. L’errore di Grahm e Horgan è quello di assumere che esista un livello di conoscenza diretta delle proprietà fenomeniche, laddove sapere cosa si prova nel fare l’esperienza di una sensazione di blu o giallo è inneffabile. Da ciò si può far derivare l’idea che la fenomenicità non possa esser fatta derivare da elementi di livello inferiore, poiché è solo l’esperienza effettiva che consente di sapere cosa si prova a farla. Per impedirle di imbrogliare i suoi carcerieri, Jackson suppone che Mary sia costretta a vestire abiti bianchi e che il suo campo visivo sia monocromatico. L’esperimento mentale presuppone comunque che il sistema visivo di Mary, nonostante la povertà di colori ambientali del suo campo visivo, sia del tutto intatto. In breve, Mary possiede internamente tutto il necessario per esperire il colore, ma che esso semplicemente non è stimolato: anche se non ha mai visto il «rosso», Mary conosce comunque benissimo tutte le caratteristiche che una cosa deve possedere per «essere rossa».

Qual è la differenza tra immaginare di far esperienza di rosso e l’esperienza effettiva del rosso?
Mary, ovviamente, non può immaginare cosa si prova a fare esperienza del rosso, ma immaginiamo che, non accettando una simile limitazione, mediti per ore ed interrottamente a tale proposito; immaginiamo che, dopo estenuanti riflessioni, Mary esclami un giorno: “Applicando tutte le mie conoscenze sono riuscita ad immaginare cosa si prova a vedere rosso!”. Chiunque dubiterebbe delle sue parole, per cui, per accertarci della veridicità delle parole di Mary, viene deciso di sottoporla ad un test nel corso del quale le vengono mostrati tre cerchi colorati ai quali Mary risponde immediatamente identificando correttamente il rosso. Due sono le conclusioni possibili, cioè: 1) Jackson si sbagliava, per cui Mary può capire cosa si prova a vedere rosso anche se vergine da ogni esperienza di rosso; 2) Mary, non riuscendo ad intuire cosa si prova a vedere rosso, è dovuta ricorrere ad esercizi di immaginazione per capire cosa si prova a vedere rosso.

Esperimento mentale 2. RoboMary. Proponiamo una variante dell’esperimento mentale di Jackson, immaginando che Mary non sia una persona umana, bensì un robot al quale non è stato inserito il chip che permette la della visione dei colori. Come nel caso della sorella umana, RoboMary possiede al proprio interno un equipaggiamento normale per la visione dei colori pur essendole stato impedito di ricevere adeguati input cromatici. In attesa che le sistemino due telecamere a colori che rimedino a tale mancanza, RoboMary impara qualsiasi cosa ci sia da sapere sulla visione dei colori nei modelli di robot di cui essa stessa fa parte, imparando tutto sui sistemi di codifica delle sfumature di colore condivisa dagli altri robot; grazie alle proprie conoscenze, RoboMary scrive un proprio software che le consente di colorare gli input delle proprie telecamere – in bianco e nero – sulla base dei dati raccolti su come gli oggetti sono colorati e come gli robot li codificano in condizioni normali. Per accertarsi dell’affidabilità che il codice surrogato di colore interno, RoboMary confronta i valori dei propri registri con quelli contenuti nei registri degli altri robot quando essi guardano gli stessi oggetti con le loro telecamere a colori, in modo tale da operare aggiustamenti o correzioni qualora si sia sbagliata. Un bel giorno, finalmente, le vengono sostituite le vecchie telecamere con un paio a colori, per cui Robomary può disattivare il software di colorazione «aprendo gli occhi» sul mondo: osservando ciò che le sta intorno, però, non impara nulla né si meraviglia di nulla, poiché sapeva già cosa avrebbe provato nel vedere i colori.
Supponiamo il caso che a RoboMary venga impedito di alterare i propri registri di esperienza del colore, modificando il suo sistema di visione cromatica fino a restringerlo a valori della scala del grigio. RoboMary prova a porre rimedio a ciò, per cui, utilizzando qualche terabyte di RAM libera, costruisce un modello di se stessa e, dall’esterno, si immagina come reagirebbe in una qualsiasi situazione colorata: se RoboMary prenderà un limone maturo e lo passerà di fronte alle sue telecamere in bianco e nero otterrà alcuni valori, anche se molto scarsi, nelle proprie gradazioni di grigio, riconoscendo i essi le precise condizioni di luce compatibile con l’«esser giallo» del limone maturo. In un simile stato, RoboMary non può porsi in maniera diretta né nello stato di esperire un limone maturo né nello stato di immaginare un limone maturo, eppure, guardando il frutto che le appare grigio, compie infinite regolazioni e aggiustamenti temporanei nel proprio sistema cognitivo. Possiamo chiamare l’insieme totale delle sue risposte in queste condizioni cognitive come di colore bloccato allo Stato A identificando sotto questa nomenclatura quello stato che le impedisce di percepire i colori, che RoboMary confronta con quello assunto dal modello di sé stessa che non è bloccato e che possiamo definire come Stato B, il quale corrisponde a quello che l’originale RoboMary avrebbe se la sua visione dei colori non fosse stata bloccata; dal confronto con la sua copia RoboMary nota tutte le differenze fra lo Stato A e lo Stato B in modo da poter effettuare tutte le correzioni necessarie, ponendosi dunque nello Stato B. Essendo lo Stato B la condizione normale dell’esperire i colori, ora Robomary potrà sapere esattamente che cosa si prova a fare esperienza di un limone maturo.

Dati i suddetti esperimenti possiamo trarre alcune conclusioni. Viene innanzitutto avvalorata la tesi del funzionalismo, la quale racchiude l’idea che il bello è tale in quanto fa bene quello che deve fare, quale concetto base a partire dal quale deve edificarsi la scienza stessa; essendo la scienza l’instancabile e perenne ricerca della semplificazione, vi sarà sempre una maggiore inclinazione verso il minimalismo, verso l’idea cioè che le cose che valgono siano meno di quanto si creda. Seguendo questa tesi si evince che la mente appaia semplicemente come un sistema di controllo implementato dal cervello organico, ipoteticamente rimpiazzabile da qualsiasi altra cosa capace di computare le medesime operazioni di controllo. Se la sola cosa che conta è la computazione, allora passa in secondo piano la chimica del cervello, giacché questo è considerato unicamente come un software che può essere rimpiazzabile tranquillamente da un mucchio di microchip e fili elettrici.

Questa è la tesi dell’Intelligenza Artificiale Forte, che possiamo suddividere in due parti: da una parte, l’idea della commistione funzionalismo/minimalismo, dall’altra, la necessità da parte degli scienziati cognitivisti di approfondire la ricerca riguardo la neuroscienza. Sono assai numerose le opinioni e le teorie sorte da questo calderone neuro-scientifico, la maggior parte delle quali sono andate sfaldandosi nel tempo, sia per mancanza di solide ragioni a loro sostegno sia per sostituzione di esse con altre. Fondamentale per una teoria neuro-scientifica deve essere il fatto di riguardare il Soggetto, capace di scomporre un simile potere d’esecuzione nelle parti che lo costituiscono come tutto, nessuna delle quali può essere, da sola, propriamente un soggetto; se tutte queste parti saranno analizzate funzionalmente come aspetti disposizionali distribuiti nel cervello, potranno allora cadere tutti gli altri spettri che pretendono di affermare qualcosa riguardo il funzionamento della mente, come qualia, fenomenicità ed immaginaria differenza tra esseri umani e zombie filosofici.