Il profondo senso di disillusione del progresso ed angoscia per il futuro costituiscono il sostrato principale a partire dal quale si svilupperà il sentimento moderno circa la percezione della fine imminente. Tradito dalle promesse del progresso scientifico che lo allontana sempre di più dagli altri uomini, isolandolo in una piccola parte di mondo, e dalla democratizzazione del mondo rovesciatasi di una nuova e più dispotica tirannia con la nascita dei totalitarismi, l’uomo moderno intravede all’orizzonte del futuro l’approssimarsi di un’era in cui domineranno alienazione e spersonalizzazione degli individui, ridotti ad essere non molto dissimili dai propri oggetti di consumo prodotti in serie, e la condanna ad un mondo svuotato di senso e valore. L’esasperazione di questo senso della fine nascerà subito dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, si sviluppa attraverso l’esperienza della nascita dei regimi totalitari trovando il suo apice massimo nel corso della Seconda Guerra Mondiale e negli anni a questa successivi segnati dal trauma dell’orrore. Questo rapido e costante deterioramento cui il mondo civile ed industrializzato del XX Secolo si è avviato, spinge molti intellettuali a ritagliarsi un piccolo e personale universo artificiale con l’intento di salvaguardare la propria individualità dal processo selvaggio di massificazione delle coscienze, facendosi con ciò custodi del sapere del passato che rischia di essere manipolato e falsificato dai regimi totalitari.

In questo contesto assume un ruolo importante lo sviluppo degli studi della psicanalisi moderna, la cui funzione viene spesso guardata in maniera ambivalente a seconda del punto di vista: per un verso, essa vede schierata contro di sé una forte opposizione formata da un certo numero di intellettuali e scienziati che l’accusano non solo di non avere alcun carattere scientifico (e, pertanto, di essere nient’altro che una delle tante mistificazioni del vero), bensì di essere subdola modalità di controllo del singolo individuo. Ciò che la psicanalisi sembra fare agli occhi di molti non è molto dissimile dall’opera di massificazione dei regimi totalitari: svuotano l’uomo del suo Io più intimo e personale, oggettivandolo a mero caso di analisi. Dall’altra parte, invece, troviamo un’euforica adesione ad essa da parte di intellettuali ed artisti che, scorgendo in essa quella chiave universale che consente di accedere all’essere più intimo per estrapolarne un’interpretazione, fonderanno nella nuova scienza psicanalitica l’essenza stessa del loro pensiero e la loro opera. In questa atmosfera decisamente contraddittoria e pesante, generata dallo sviluppo della psicanalisi moderna, nei primi decenni del Novecento, si assiste ad una vera e propria esplosione di correnti artistiche ed intellettuali da essa ispirate, le quali conferiscono il primato dell’esperienza all’inconscio ad al sogno. L’arte ispirata dalla psicanalisi diviene strumento privilegiato che più direttamente ed in maniera autentica, a dispetto di tutte quelle discipline positivistiche che tentano di confutarne la validità, ha accesso al mondo ineffabile dell’inconscio dove aleggia l’Io intrinseco ed occulto. Questa è l’idea di fondo che influenzerà l’intera pittura di Magritte che prelude, ed anticipa sotto molteplici punti di vista, la corrente Surrealista, quale esperimento sempre attivo ed in continuo sviluppo, all’interno del quale convivono al tempo stesso e senza contrapporsi l’ordinarietà della vita quotidiana e l’assurdo frutto dell’immaginazione. L’atmosfera che accoglie le sue opere infonde un profondo senso di disturbo causato da simile mescolanza di elementi, contraddittori e apparentemente inconciliabili l’uno con l’altro; essa confonde e stravolge tanto la dimensione del reale quanto quella dell’irreale. Tuttavia, l’intenzione di Magritte è ben lontana dall’esprimere l’irrazionale in senso assoluto ed univoco: le sue opere conservano una vena fortemente razionale, volta al mantenimento di un’analisi oggettiva della percezione ed una visione logica del reale. L’esempio più noto di questo nuovo stile pittorico che prelude al surrealismo ed al cubismo lo troviamo emblematicamente impresso nell’opera Attempting the Impossible (1928), reinterpretazione fantastica del mito di Pigmalione che volle creare la donna ideale scolpendola nell’avorio. Al proprio concepimento, l’opera sembra essere quella svolta attesa che annulla la distanza fra arte e vita reale fino al momento in cui l’artista non può che crollare sotto l’insostenibile ed inalienabile peso del reale materiale; l’insostenibilità del reale viene esasperata al massimo, tale da indurre l’artista a considerare sé stesso come nient’altro che una propria auto rappresentazione, svincolandosi così dalle leggi della logica e della biologia. La logica a cui fa riferimento Magritte è quella che ha valore all’interno del sogno, quale luogo estraneo ed indipendente dalla contingenza in cui la razionalità viene a costituirsi in senso stretto per il solo fatto di non essere reale nel reale, e rispetto al quale non esiste via d’uscita giacché tutti sogniamo. Questa necessità di fuggire dal mondo reale, colpevole d’aver disilluso le aspettative degli uomini e di alienarli sempre di più da una qualsiasi forma di felicità proprio per mezzo di quegli stessi strumenti che avrebbero dovuto, per conto, condurre alla felicità, si riflette con rinnovato vigore nella poesia dell’Immaginismo fondata da Ezra Pound con la pubblicazione del manifesto ufficiale del movimento, nel 1914. In esso vengono elencati tutta una serie di caratteri funzionali alla distinzione del ruolo della poesia moderna rispetto alle correnti passate, anche al fine di salvarla dalla frammentazione degli stili che la minano al suo interno. Fra le regole ivi comprese rientrano anche la necessità dell’utilizzo di un linguaggio specifico e del tutto simbolico, la completa libertà del soggetto nella scelta di una particolare tematica, e l’utilizzo di uno schema poetico spurio di qualsiasi metrica. Il movimento immaginista nasce quale rivolta al pensiero romantico, rompendo l’imposizione della regolarità, della retorica e della strofa classica, ed aprendo la strada ad una poesia strutturata interamente su concetti astratti e simbolici, in piena adesione al motto secondo cui «il soggetto naturale è sempre il suo simbolo adeguato».

La poesia dunque, secondo Pound, deve essere specchio de-formatore del reale in cui riflettono e confrontano tutta quella serie di contraddizioni che caratterizzano la modernità, senza escludersi l’una con l’altra e senza annullarsi. Ad andare oltre il movimento immaginista fu, invero, lo stesso Pound quando, nel corso della stesura della sua opera maggiore The Cantos, svilupperà un linguaggio ed una forma stilistica dal carattere sempre più esclusivo ed oscuro, all’interno del quale l’antica tradizione viene affianca e combinata da considerazioni formali completamente innovative. Proprio come in Pound, anche in Eliot la comprensione poetica risulterà essere ardua, se non addirittura a tratti incomprensibile. Anche Eliot (come già aveva fatto Yeats a suo tempo), si avvale di un proprio sistema di simboli che gli permette di strutturare una poesia arcana ed estremamente oscura; ben lontana dall’offrirsi ad una lettura di facile comprensione anche per coloro dotati di una minima nozionistica letteraria, la poesia promossa da Eliot vuole richiamare a sé solo e soltanto un ristretto e selezionato pubblico d’elite. L’oscurità poetica caratterizzante la poesia di Eliot segna la rottura definitiva con la tradizione romantica.

Questa insanabile frattura col passato e la tradizione è volta alla sottrazione della poesia dalla mera funzione consolatoria alla quale è stata a lungo destinata e che l’ha lentamente trasformata in qualcosa che consenta di astrarsi dalla percezione del dilagante «vuoto morale» che avvolge il reale. Rigettando completamente l’ideale romantico che concepisce il poeta nelle vesti di genio o profeta che assume sulla propria persona la missione di portare in mezzo agli uomini la voce del dio che fugge, in Eliot il poeta diventa custode di un sapere che deve restare precluso alla massa e che esprime sentimenti oscuri in maniera ancora più oscura ed impersonale, come se questi non riguardassero affatto il poeta che li scrive . L’originalità che distingue il poeta rispetto a qualsiasi altro artista si manifesta nella sua abilità specifica di combinare e manipolare elementi appartenenti all’antico e, a partire da questi, costruire qualcosa di completamente nuovo, creando in tal senso una nuova tradizione poetica del tutto diversa ed indipendente dalla precedente.

La poesia moderna, così come Eliot la intende, deve costituire una nuova era della poesia stessa. Nella sua opera maggiore, The Waste Land, possiamo trovare scene di vita quotidiana intersecate ad elementi appartenenti alla sfera del mito, in una combinazione eterogenea di linguaggi diversi, il cui risultato prelude ad una comprensione estremamente complessa. L’oscurità del poema accentua quel senso di inarrestabile disintegrazione dei valori antichi – e che costituivano un terreno sicuro su cui l’umanità poteva poggiare senza dubitare di essi – sostituiti da tutta una lunga serie di nuovi pseudo-valori che affondano le radici di quella macabra e deleteria filosofia dell’annientamento, successivamente denominata relativismo. La difficoltà della comprensione poetica viene da Eliot intesa quale inevitabile conseguenza della complessità del vivere nell’età moderna che, a propria volta, costituisce l’inevitabile conseguenza della disgregazione della cultura occidentale che ha corroso la sfera dei valori, evento questo che ha avviato il suo cammino verso un progressivo processo di decomposizione del mondo stesso. Nel desolante panorama che inaugura la nascita dell’età moderna, l’uomo diviene sempre più simile ad un «prodotto sociale», privato tanto della coscienza del passato e di qualsiasi ambizione per il futuro. Non è tanto il non sapere più cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, quanto piuttosto il fatto che l’uomo moderno è rispetto a tali concetti del tutto indifferente, in quanto ad egli è richiesto solamente di «fare» o «non fare» qualcosa e non di pensare, tale che gli stessi rapporti interumani appaiono vuoti ed asettici.

La poesia di Eliot The Hollow Men, può considerarsi una sorta di «inno del vuoto», il traguardo ultimo raggiunto dall’età moderna, dove trionfano il disgregamento culturale e la massificazione delle coscienze. Eliot volge la propria critica alla sciagurata epoca in cui vive, paragonando la vita che vi si conduce ad un «vivere all’inferno sulla terra»; in essa l’umanità appare sempre più restia a qualsiasi relazione con altri esseri umani, imprigionata in un certo senso nel proprio solipsistico auto isolamento in cui perfino con sé stessi si ha difficoltà a mantenere contatto alcuno. E dal momento che siamo diventati quasi liofilizzati, non molto diversi dagli oggetti che produciamo in quantità infinita e dei quali ci circondiamo nell’illusione di essere e sentire ancora qualcosa, assieme al nostro spirito viene a decomporsi e marcire anche il nostro stesso ambiente. A stento questi uomini sanno di essere vivi. Non solo, ma l’indifferenza nei confronti della propria vita si estende anche al di fuori di noi stessi, manifestandosi nell’imprudenza e scellerataggine delle nostre azioni che non sembrano preoccuparsi dei possibili effetti ad esse conseguenti. Ed è proprio questa totale assenza di sentimento, verso noi stessi e verso qualsiasi altro essere (ambiente compreso), che dà luogo a quel processo di annientamento del mondo: una fine che non avviene fra disastrosi eventi come predetto dalle Sacre Scritture, ma silenziosamente, attraverso la continua evoluzione di questa indifferenza che ci renderà sempre più estranei gli uni agli altri ed estranei al mondo. La fine è dunque segnata non da eventi apocalittici, ma dal processo di estraniamento, alienazione e massificazione delle società e degli individui, ovvero «non già con uno schianto ma con un lamento». Il mondo è giunto all’ultima stagione. Il tempo dell’avvenire è quello in cui l’umanità s’impegnata alla preparazione della propria camera ardente in attesa della sua imminente fine. Una fine che non necessariamente costituisce un’attesa alla sua estinzione in quanto specie umana, bensì una fine dell’uomo e del mondo così come essi si sono da sempre conosciuti, aprendo le porte a qualcosa di completamente nuovo e spaventevole. Come già Baudelaire aveva decretato, gli uomini moderni sono realmente tutti uguali, giacché tutti «egualmente colpevoli di stupidità, errore e peccato». Non resta loro altro che fare il proprio ingresso nell’ultima era del mondo, quella che Sartre chiamerebbe l’ultima «stanza» alla quale si può accedere unicamente seguendo uno dei due atteggiamenti possibili: liberi o non liberi. Agli uomini del presente, ed ancor di più a quelli del futuro che erediteranno quanto il presente si appresta a lasciare in eredità, spetta la scelta finale.


Immagine: Magritte, Impero delle luci