"E’ da tempo che mi sono reso conto di quanto di falso avevo preso per vero". Questa è la frase che inaugura la stesura delle Meditazioni Metafisiche, dove con l’ espressione "da tempo" Cartesio intende riferirsi al 1619, anno in cui il filosofo francese aveva optato per la nuova scienza che aveva trovato trattazione all’interno del Discorso sul metodo: tale scienza costituiva una novità nel panorama filosofico dell’epoca, in quanto essa prendeva nettamente le distanze sia dalla tradizione scolastica sia dalle filosofie che circolavano durante il Rinascimento, proprio per evitare di naufragare egli stesso nell’ oblio confuso di tesi ed antitesi che queste filosofie proponevano di giorno in giorno, prospettandosi di cominciare la ricerca della realtà seguendo la via del "metodo", ossia di assumere a modello l’ unico sapere spurio da ogni sorta di confutazione e dubbio ed al quale si potesse riconoscere in virtù di ciò un qualche valore scientifico. Nessuna disciplina più della matematica sembra incarnare alla perfezione l’ideale cartesiano della verità avulsa da qualsiasi sorta di dubbio, costituente essa a buon diritto un vero e proprio valore scientifico. Col passare del tempo però la ricerca sul metodo di stampo matematico-analitico andava sempre più trasformandosi in una ricerca epistemologica, che finì col condurre Cartesio ad punto tale da costringerlo ad abbandonare la via della matematica pura. Il congedo dalla matematica fu motivato dalla convinzione, che pian piano si era insinuata in Cartesio, che pur con tutte le conquiste in matematica nulla egli aveva fatto per costruire una filosofia nuova da sostituire alla scolastica.

Sarà solo a partire dal 1628, a seguito di questa sempre più radicata convinzione, che nascono le sue prime meditazioni dette propriamente metafisiche, nel senso in cui egli intendeva occuparsi della dimostrazione dell’ esistenza di Dio e della spiritualità dell’anima umana, affermandone la superiorità per certezza a quella matematica. Con ciò sia ben chiaro che Cartesio non intendeva assolutamente diminuire la certezza della matematica in quanto tale, bensì sostenere che essa necessitava di essere garantita da una metafisica adeguata ad una verità simile. Mediante l’applicazione del dubbio metodico ad ogni ramo del sapere scientifico (compreso quello matematico), egli si accinge ad approdare all’ unica via in grado di superare una verità che appare tanto certa, quale è appunto la dimostrazione della veracità di Dio: in base a tale principio, non è possibile che noi ci si inganni sistematicamente, anche in ciò che possiamo intendere con evidenza, poiché altrimenti sarebbe fallace la nostra propria natura; ciò sarebbe però incompatibile con la perfezione di Dio, in quanto un tale autoinganno equivarrebbe ad affermare che sia Egli stesso ad ingannarci. Prima di aver dimostrato che siamo esseri creati da un Dio verace, afferma Cartesio, non saremmo in grado di evitare l’angosciante quesito se per caso non siamo vittime della nostra stessa natura, poiché pare non esserci più niente a garanzia di ciò che noi asseriamo come evidenza corrisponda effettivamente alla verità oggettiva del mondo. Ciò che non siamo capaci di escludere è il dubbio che colui che ci ha creati si sia preso gioco di noi offrendoci al mondo in questo determinato modo d’ essere. Ben si comprende che la radice madre del dubbio metodico per Cartesio, da cui discendono poi tutti gli altri, è se esista realmente un mondo al di fuori del nostro pensiero: unica soluzione ad essi dipenderà dalla dimostrazione dell’ esistenza di un Dio verace.

Nelle Meditazioni Metafisiche è presa fermamente la decisione di non assumere più niente come vero senza che vi sia una dimostrazione della sua verità; per cui, se tutto quanto creduto vero risulta infettato dal dubbio, è per impostare la strategia di fondazione della conoscenza umana. È a partire dall’ analisi epistemologica sulla realtà (non più analitica) intrapresa dalle Meditazioni Metafisiche che viene volto lo sguardo all’oggetto proprio della metafisica, quale è appunto la "mente" dell’uomo, segnando una rottura definitiva con l’animismo religiosamente professato dalla scolastica. Cartesio definisce la spiritualità dell’ anima come distinzione reale della mente dal corpo, alla quale occorre operare in via preliminare un discriminazione fra "ciò che è corpo" e "ciò che è mente", giungendo alla conclusione di corpo come res extensa, cioè cosa meramente materiale ed estesa, e la mente come res cogitans, ossia cosa pensante. In sintesi, la problematica di partenza che ha dato alla luce le Meditazioni Metafisiche, e dalla quale avrà origine l’intero pensiero filosofico moderno, è incentrata sul rapporto tra il soggetto ed il mondo, una volta che si muova la questione a partire dal’ ottica propria dell’Io; assumere il punto di vista di un Io in prima persona è indispensabile dal momento che si sostiene che l’unica certezza inaffondabile è il fatto che "Io penso".

Lo spettro terribile che Cartesio affronta e combatte nel corso delle sue Meditazioni, una volta accettato il metodo di un Io-narrante-dialogico, è il dogmatismo spontaneo dell’uomo comune, riferito esso a tutto quell’insieme di credenze – di derivazione soprattutto aristotelica – trasformate in presunte tesi filosofiche; escludendo questo insieme di convinzioni filosofiche, Cartesio sostiene che sia lo scetticismo ad essere esclusivamente atteggiamento filosofico, poiché l’uomo, spontaneamente, è portato ad essere dogmatico. Questo significa che ciascun individuo nel proprio pensiero è chiuso in se stesso, e che qualsiasi domanda relativa a ciò che è altro da sé muova dall’ originaria separatezza tra Io e Altro: la mente non ha altro oggetto immediato che le proprie idee e credenze. A determinare la rottura del rapporto diretto col mondo è si la scoperta del soggetto, ma anche la chiusura in se stesso. Se da una parte acquista prestigio la soggettività come esclusivo sguardo sul mondo, dall’ altra diventa non poco problematico il recupero dell’oggettività a partire dal personale punto di vista.

"Io penso dunque esisto" è la prima certezza che si scopre nella ricerca della verità. Il "cogito" è indubitabile in qualsiasi condizione poiché lo si conquista proprio all’ interno del dubbio stesso. Dubitare è un modo di pensare, nel senso che il dubbio sull’ esistenza di colui che dubita risulta essere oltre che impossibile anche contraddittorio, giacché si rovescia automaticamente in una conferma dell’ esistenza stessa. Unico traguardo finora raggiunto, nella ricerca della verità, è quindi la scoperta della propria esistenza, mentre tutto il resto è rimasto sotto la cappa nebulosa del dubbio. A questo punto occorre chiedersi che cosa Io sia, è chiederselo quando ancora non si sa se esista nient’ altro oltre a me che penso: Io sono soltanto una cosa che pensa.

Alla cosa, o sostanza, pensante Cartesio attribuisce il termine di mente, ed è proprio qui che sboccia la domanda cruciale che impregna l’ intera opera cartesiana, ossia:

La sostanza che pensa, cioè la mente, è materiale o no?

Si deve parlare di materialismo o di spiritualismo? Per poter dare una risposta a tale quesito, nella Seconda meditazione viene aperta una sorta di parentesi riguardante la conoscenza dei corpi.
Procediamo per gradi: ammettiamo in via del tutto provvisoria che i corpi esistano, ma questo solamente per poter mostrare quanto la loro conoscenza rimanga inferiore rispetto a quella che noi abbiamo di noi stessi quando pensiamo; concetto fondante è che i corpi li possiamo conoscere non mediante i sensi ma tramite l’ intelletto. Il celebre esempio del pezzo di cera lo dimostra esplicitamente: quel che sia un pezzo di cera non lo potremmo mai sapere né per mezzo dei sensi né per mezzo dell’ immaginazione, poiché quand’ esso si liquefa passa attraverso un’ infinità di forme diverse in virtù del movimento continuo; esso quindi non può essere compreso se non tramite l’intelletto. Tutto ciò che ha a che fare con l’ infinito è accessibile unicamente all’ intelletto. Ciò che la nostra percezione capta si limita ai modi o accidenti della cosa, ossia alle proprietà della cosa che la rendono figurata in quel modo. Per liberarsi dalle credenze ritenute vere comunemente bisogna che vi siano dei fondamenti ben determinati.

Si dubita che qualcosa sia vero, cioè se un certo oggetto sia reale, e si devono avere delle ragioni che giustifichino il dubbio; tali ragioni, a loro volta, per quanto siano giustificate, non saranno mai certe ed indubitabili, per cui anch’esse di conseguenza daranno luogo ad ulteriori dubbi. In primo luogo, viene messo sotto accusa il pregiudizio, comunemente accettato, che tutto ciò che riceviamo per mezzo dei sensi sia vero. La peculiarità di quanto percepiamo attraverso i sensi è tale da portare Cartesio a supporre, in un’ inquietante ipotesi, che proprio questa assenza di certezza renda la nostra intera esistenza nient’ altro che una mera apparenza. L’ eventualità agghiacciante avanzata da Cartesio è che la vita stessa di ogni singolo individuo non sia altro che un sogno, un’ illusione di cui siamo totalmente ignari poiché crediamo essere questa la nostra propria realtà:

"In effetti, quanto mai spesso nel riposo notturno mi persuado di quel che mi è abituale, e cioè appunto che sono qui, in vestaglia, seduto accanto al fuoco, mentre invece sono svestito e disteso sotto le coperte […] Così, riflettendoci con più attenzione, tanto chiaramente mi rendo conto che non è mai dato di distinguere la veglia dal sogno con criteri certi, da rimanere attonito; e proprio questo stupore mi riporta quasi a credere di star sognando anche ora".

Il paragrafo sopra riportato, tratto dalla prima meditazione, può essere riassunto nel modo seguente: quando sogniamo abbiamo le medesime percezioni che, convinti di essere svegli, crediamo fermamente che provengano dai sensi esterni. Ma, proprio in virtù di ciò, non potrebbe darsi allora che anche tali credenze e convinzioni non facciano parte di un’ illusione integrale? Se ciò è vero, si può dunque affermare che una qualsiasi percezione sensibile può essere sempre frutto dell’ illusione, in quanto non siamo in possesso di un criterio sicuro ed affidabile per distinguere le percezioni reali dalle percezioni illusorie. A tale questione si aggiunge un ulteriore interrogativo, più sconvolgente del precedente: e se per caso non avessimo nemmeno un corpo?

"[…] ammettiamo pure che si stia sognando, e quindi non siano veri tutti quei dettagli, come che apriamo gli occhi, muoviamo la testa, allunghiamo le mani, e magari non sia vero neppure che abbiamo delle mani e tutto quanto il corpo […]"

L’ argomento del sogno integrale viene dunque esteso fino ad investire l’esistenza del proprio corpo – che è quanto ci è più intimo – il quale, sotto la veste del dubbio, viene così a perdere l’autonomia che gli è propria, assorbito da una nuova esemplificazione di qualcos’altro. Tramite il sogno integrale Cartesio avanza la questione relativa al rapporto mente-corpo: ammettendo pure che non sia vero che le cose che percepiamo siano effettivamente entità esistenti, bisogna almeno ammettere come vero qualcosa di massimamente universale ed estremamente semplice quale la natura corporea – generalmente intesa con qualche cosa che può essere rintracciata in figura di ciò che è esteso mediante le proprietà di quantità di cose estese, luogo in cui le cose si trovano e tempo in cui esse permangono – e allo stesso modo di deve anche ammettere l’indubitabilità delle conoscenze matematiche in virtù della loro evidenza:

"E allora, poiché le immagini di questo genere non possono che essere formate a somiglianza di quel che è vero [...], così non saranno immaginarie, ma esisteranno per davvero, almeno delle entità come occhi, testa, mani e l’intero corpo, presi in generale."

"In effetti, tanto più che io sia desto quanto che dorma, la somma di 2 e 3 sarà sempre 5, e il quadrato non avrà più di quattro lati; né pare che possa darsi che verità così chiare incorrano mai nel sospetto di essere false."

Ciò che si ritiene essere quanto di più semplice ed universale, da cui è possibile cominciare la ricerca del vero, sono le proprietà quantitative dei corpi, mentre sulle proprietà qualitative dei sensi occorre mantenere un certo silenzio. Nella sua lotta contro il dubbio scettico che contamina ogni convinzione e credenza, Cartesio si pone la possibilità che non sia forse Dio stesso ad ingannarci:

"E tuttavia nella mia mente è radicata una vecchia opinione: che c’è un Dio, che può tutto, e che da lui io sono creato quale ora esisto; e, allora, come posso sapere se egli non abbia fatto in modo che non ci siano affatto terra, cielo, cose estese, figure, grandezze, luoghi, e nondimeno tutte queste cose mi sembrino esistere non diversamente da come mi sembra ora? Ed anzi, poiché giudico che talora altri si sbagliano anche in ciò che ritengono di sapere alla perfezione, come posso sapere se Dio non abbia fatto in modo che anch’io mi inganni ogni volta che sommo 2 e 3, o conto i lati del quadrato, o, se si riesca a immaginarlo, in qualcosa di ancora più facile?"

A questo punto il dubbio raggiunge il suo picco massimo. Esso non si limita più a dubitare solo delle cose estese, ossia ciò che si esprime in termini di figura, tempo e luogo, ma si estende fino al punto di toccare la certezza della conoscenza matematica. L’ argomento del sogno integrale era sufficiente per condurre Cartesio alla dubitabilità delle cose materiali, ma alla nuova ipotesi circa il fatto se per caso non avessimo affatto una qualche conoscenza matematica, egli altro non può fare altro che supporre l’ esistenza di un Dio ingannatore, o Genio Maligno. Ciò che Cartesio intende può essere sintetizzato nella formula che qualche cosa che ci appare evidente non può essere che giudicato vero, ma in nessun caso possiamo avanzare alcun diritto a ritenerlo tale. L’ ingresso del Genio Maligno altro non è che uno spunto metodologico, finalizzato sia alla provvisoria sospensione di qualsiasi forma di giudizio (in attesa di una qualche dimostrazione che ne attesti effettivamente la veridicità), sia per procedere ad un’ operazione volta all’ obbiettivo di condurre il reale ad appoggiarsi a ragioni plausibili. Supporre che vi sia un Genio Maligno che ci inganna sistematicamente in maniera tanto abile gli consente di realizzare simile operazione; da notare è però il fatto che, in seguito, sotto tale supposizione Cartesio farà anche precipitare soltanto l’ esistenza delle cose materiali, salvando le conoscenze della matematica.
Il Genio Maligno si risolve in una sorta di maschera del Dio ingannatore, ossia in qualcosa di molto più debole e non tanto potente da mettere in dubbio perfino le scienze matematiche e, in generale, la conoscenza di ciò che è palesemente evidente.

In ultima analisi, per poter dubitare di qualcosa si deve essere sì autorizzati da ragioni plausibili per poterlo fare, ma di ciò che si può dubitare allora si deve dubitare, mentre ciò di cui non si ha ragione alcuna di dubitare è tale perché ciò è assolutamente indubitabile sempre ed in qualsiasi condizione. Sono sostanzialmente due le cose di cui non è mai lecito dubitare, quali: il mio pensare, intendendo con tale terminologia i contenuti della mia attività pensante, quali le idee ed il mio saper pensare; e di ciò che è di per certo garantito da ciò che Cartesio chiama luce naturale, riassumibile nella formula che il nulla non fa nulla, ossia nell’ istante medesimo in cui mi pongo il dubbio esso costituisce la conferma della mia esistenza almeno nella forma del pensiero.

Io penso, io esisto. L’indubitabilità di questa affermazione è garantita dalla previa indubitabilità delle premesse sopra descritte.