Anche con John Searle, dopo gli apporti teorici di Dennett, ci troviamo nuovamente di fronte alla questione cruciale di tutta la filosofia della mente, ovvero il rapporto mente/corpo. Pur occupandosi della stessa problematica proposta da Dennett, Searle né discuterà in maniera del tutto diversa, contrastando altresì pesantemente il punto di vista in terza persona al quale Dennett approda. È a partire proprio dall’atteggiamento in terza persona che Searle prende le proprie distanze da Dennett, dichiarando la completa falsità di un simile approccio data l’impossibilità di fuoriuscire dal proprio atteggiamento in prima persona. Una prima soluzione mente/corpo, dice Searle, può essere data dal fatto che tale commistione fa si che i fenomeni mentali frutto dei processi neurofisiologici cerebrali appartengano, a loro volta, al cervello; al pari della digestione o della mitosi, dunque, i processi mentali appartengono alla nostra storia biologica naturale. Il modo in cui la neurofisiologia spiega l’eterogeneità e la varietà dei fenomeni mentali degli esseri umani, sia consci che inconsci, costituisce il nucleo principale degli interrogativi posti dalle neuroscienze.

In filosofia possiamo domandarci cosa sia la coscienza e quale sia la reazione che intercorre tra fenomeni mentali coscienti ed inconscio, in che cosa consistano le proprietà del mentale (coscienza, intenzionalità, soggettività), quali relazioni causali vi siano tra fenomeni mentali e fenomeni fisici e come caratterizzare tali relazioni. Il problema filosofico della relazione mente/corpo nasce soprattutto dalla lunga disputa di due opposte tendenze filosofiche, quali il dualismo ed il materialismo che dibattono circa l’irriducibilità o meno della coscienza e dell’intenzionalità. Se i dualisti reputano irresolubile il problema mente/corpo, in quanto la mente non può in nessun caso essere ridotta a mera materialità, i materialisti, di contro, concordano che tale rapporto sia particolarmente complesso se accettata l’irriducibilità di coscienza ed intenzionalità a fenomeni fisici. Scopo dei materialisti è la naturalizzazione dell’intenzionalità e della coscienza, riducendo quest’ultima, appunto, a fenomeno puramente fisico. Prendendo in esame entrambi i punti di vista, Searle li giudica egualmente profondamente errati, affermando che, oltre ad utilizzare una terminologia alquanto obsoleta, essi prendono per valide numerose assunzioni che sono in realtà false. Se il dualismo viene oramai tenuto fuori da ogni gioco filosofico, data la sua incompatibilità con la visione scientifica del mondo, il materialismo è invece dominante nel panorama filosofico moderno e contemporaneo. Da mettere in evidenza è il fatto che le tesi della filosofia cognitivista attuale vengono accettate non tanto perché si creda in ciò che esse dichiarano, quanto per timore di esser costretti a ricorrere alla scelta tra un metodo scientifico (materialismo) ed uno antiscientifico (dualismo cartesiano).

Nella propria analisi della questione mente/corpo, Searle elenca sei tesi materialiste diverse tra loro, le quali cercano di sminuire l’importanza dei normali fenomeni mentali mettendo in dubbio l’esistenza di proprietà generali del mentale, come coscienza e soggettività.

La tesi del materialismo eliminativo – sostenuta da Feyerabend e Rorty – afferma che, come tali, i fenomeni mentali non esistano affatto e che, di conseguenza, non esistano nemmeno desideri, credenze, paure e qualsiasi altro stato che possiamo definire soggettivo.

La tesi a sostegno della falsità della psicologia popolare – proposta da Churchland – viene spesso utilizzata per sostenere la tesi del materialismo eliminativo, considerata essa come teoria empirica.

Una terza tesi materialista sostiene che ciò che specificatamente chiamiamo stati mentali non hanno nulla di specificatamente mentale, in quanto essi si esaurirebbero nelle relazioni causali che reciprocamente intrattengono con input/output del sistema a cui appartengono. A sostegno di ciò vi è l’idea propria del funzionalismo che un qualsiasi sistema dotato di adeguate proprietà causali sarebbe capace di riprodurre simili relazioni.
La quarta tesi che Searle descrive si riferisce ad un particolare tipo di funzionalismo, detto funzionalismo computazionale, secondo la quale un qualsiasi calcolatore dotato di un determinato software e di adeguati sistemi di input/output potrebbe avere a propria volta pensieri, sentimenti e facoltà di compressione, più propriamente conosciuta come tesi dell’Intelligenza Artificiale Forte.

La quinta tesi viene da Searle chiamata fallacia della terminologia del senso comune, secondo la quale certi termini, come credenza o desiderio, dovrebbero essere intesi semplicemente come espedienti verbali del tutto privi di qualsiasi riferimento a fenomeni mentali. Coloro che accettano questa tesi sostengono che la scelta di usare la terminologia del senso comune dipenda interamente dall’atteggiamento intenzionale che si assume verso un preciso sistema.
L’ultima tesi proposta, a concluse dell’elenco qui citato, sostiene con fermezza l’inesistenza della coscienza così come la si intende comunemente. Occorre aggiungere che sono assai pochi i sostenitori di una posizione tanto forte e radicale, e comunque raramente essa viene esplicitamente avanzata.

Se si considerano queste tesi nel loro insieme si evince la complessità della tradizione materialista, i cui diversi elementi si sostengono vicendevolmente, al punto tale che se ne viene messa in dubbio una parte i suoi fautori ripiegano, senza problemi, su un’altra parte la cui certezza è data per scontata. Sotto il termine di tradizione Searle intende includere un vasto raggruppamento di teorie e presupposizioni metodologiche che ruotano intorno a determinate assunzioni, quali: la secondaria importanza della coscienza all’interno dello studio scientifico della mente, poiché viene ritenuto possibile e doveroso render conto dei processi cognitivi e degli stati mentali senza che sia necessario prendere in considerazione né la coscienza né la soggettività; l’oggettività della scienza, in quanto tende ad approdare a conclusioni indipendenti da opinioni soggettive e riguarda una realtà che di fatto è oggettiva. Data l’oggettività della realtà, non esiste modo migliore per studiare la mente se non con l’adozione di un punto di vista oggettivo e del tutto impersonale; se si adotta un punto di vista impersonale, la risposta alla domanda epistemologica su come sia possibile conoscere i fenomeni mentali di un altro sistema può essere data solo dal comportamentismo, tale per cui possiamo conoscere questi fenomeni solo osservando il comportamento esterno dei soggetti. Dato il comportamentismo si intuisce bene che l’essenza del mentale risiede propriamente nel comportamento e nelle relazioni causali che esso intrattiene. Esistono per cui solamente entità fisiche, non si danno per alcuna ragione e in nessun caso realtà cosiddette mentali. In sintesi, la realtà, essendo oggettiva, deve necessariamente essere fisica. Ma se la mente esiste ed è dotata di un’ontologia oggettiva, risulta allora evidente che essa deve essere in qualche modo comportamentale e causale. A questo punto diventa di importanza fondamentale essere in grado di distinguere tra il comportamento di sistemi realmente dotati di stati mentali e il comportamento di sistemi che ne sono invece privi.

I fenomeni mentali causati dal cervello altro non sono che sue proprietà di alto livello, fra le quali è compresa anche la coscienza. Se si accetta tale posizione, possiamo dire che la coscienza è una proprietà mentale del cervello, dunque fisica. Riformulando la legge cartesiana non ci si limiterà più ad affermare «Penso dunque sono» e «Sono un essere pensante», ma è possibile ampliarla nella formula «Sono un essere pensante, dunque sono un essere fisico». In sintesi, si può dire che la coscienza, in quanto mentale/soggettiva/qualitativa, è fisica proprio in virtù del fatto di essere mentale. È da notare che spesso assumiamo espressioni come processi cognitivi e intelligenza, nello studio delle scienze cognitive ed in filosofia della mente, come se queste fossero definite e facessero realmente riferimento a specie naturali: tale utilizzo è erroneo, in quanto simili termini sono definiti in maniera estremamente labile. Altro fatto osservabile nel corso dello studio della filosofia della mente (e delle scienze cognitive in generale) è la forte tendenza all’oggettivazione, secondo cui se un oggetto è reale allora deve essere egualmente accessibile a qualsiasi osservatore. Ciò può apparire plausibile se si tiene conto del fatto che quando si deve rispondere a quesiti riguardanti i fenomeni mentali essi riguardano altri soggetti e non propriamente noi stessi; tuttavia occorre sottolineare che l’adozione di un’epistemologia impersonale non deve farci dimenticare che l’ontologia degli stati mentali è esclusivamente in prima persona. Sostenere l’oggettività della realtà porta all’accettazione dell’idea che la mente possa essere analizzata scientificamente, considerandola come un insieme di fenomeni oggettivi; ma ciò non toglie che l’ontologia degli stati mentali sia necessariamente in prima persona, poiché credenze e desideri sono sempre di un individuo particolare. Non tutta la realtà, quindi, è oggettiva, perché una parte di essa è di fatto soggettiva: possiamo in generale affermare che l’ontologia degli stati mentali è irriducibilmente soggettiva, dato che questi appartengono sempre ad un Io-Soggetto. Tuttavia, alla luce della distinzione terminologica ontologia/epistemologia/causazione, non tutta l’attività di ricerca può essere rivolta verso noi stessi quando studiamo altri soggetti. A questo punto, una volta che ci siamo liberati della soggettività e tradotto l’ontologia in termini di comportamento impersonale, possiamo affermare che gli stati mentali non sono altro che disposizioni del comportamento. Sebbene tale concezione possa sembrare plausibile, è errato supporre che l’osservazione del comportamento sia l’unico modo per osservare l’esistenza di una vita mentale negli altri individui; piuttosto è corretto dire che le basi della nostra conoscenza sono frutto della combinazione del comportamento con la conoscenza delle sue cause.

Esperimento mentale. Cervelli in silicio. La tesi della totale oggettività del mondo, nonostante la sua inconsistenza con le nostre più immediate esperienze, esercita una forte influenza dalla quale ci si deve liberare. A fine di ciò, Searle propone un singolare quanto inquietante esperimento mentale, quale la possibilità di avere un cervello fatto di silicio e ciò che questo comporterebbe.
Supponiamo che il proprio cervello inizi a deteriorarsi al punto tale da portarci a perdere progressivamente la vista. I dottori, disperati di fronte a tale situazione ed incapaci di porre rimedio a questo, tentano, come ultima risorsa, di impiantare dei chip di silicio nel cervello. Come per magia, dopo l’innesto dei chip la propria vista torna perfettamente normale, tanto che, dato che il deterioramento del cervello persiste drammaticamente, continuano ad impiantare altri chip fino a rimpiazzare completamente il cervello organico. Giunti a questo punto si aprono diverse possibili risultati, poiché non si può escludere aprioristicamente che la propria vita mentale continui ad essere la stessa di prima, cioè che i propri pensieri e ricordi siano rimasti inalterati:

1) Nel caso in cui riscontrassimo che la vita mentale rimane effettivamente inalterata rispetto a prima, ciò vuol dire che i chip di silicio, oltre a riprodurre perfettamente informazioni di input/output, sono in grado di riprodurre anche gli stati mentali coscienti che le causano

2) Supponiamo invece la possibilità che man mano che i chip vengono innestati si senta diminuire sempre di più il campo delle esperienze coscienti, senza che tutto questo provochi alcuna variazione del comportamento; con stupore e terrore ci si accorge di perdere progressivamente il controllo del proprio comportamento. Se i medici dicono che c’è un oggetto rosso nel nostro campo visivo e ci chiedono di dire loro cosa si vede, si vorrebbe gridare con tutto il fiato a nostra disposizione «Non vedo niente, sto diventando cieco!», ma non ci riusciamo; si sente invece la propria voce affermare, contro la nostra volontà, di vedere un oggetto rosso. Questo finale drammatico ci induce ad immaginare la possibilità che la coscienza finisca con l’annullarsi senza che ciò traspaia dal comportamento esteriore. Ciò che si prospetta è una progressiva morte mentale interiore che nessuno, dall’esterno, può notare data la prosecuzione del normale comportamento esteriore; i chip rimpiazzeranno quindi sia le funzioni di input/output sia gli stati mentali, fino alla totale perdita di coscienza

3) Immaginiamo ora che i chip di silicio impiantati nel cervello non causino alcun mutamento della propria vita mentale, ma si incontri difficoltà sempre maggiori a tradurre i pensieri in azioni concrete. La vita mentale (pensieri e sentimenti) rimane completamente invariata, mentre il comportamento esteriore tende alla paralisi totale. Giunti a non essere nemmeno più capaci di muovere il minimo muscolo, i medici sosterranno che, sebbene i chip siano in grado di mantenere attivo il battito cardiaco e altri processi vitali, sia arrivata per noi la morte cerebrale e che sarebbe il caso di staccare il sistema. Udendo il verdetto dei medici, ben consci del fatto che si stanno sbagliando, si vorrebbe urlare di essere perfettamente coscienti ma di essere totalmente paralizzati

Le tre diverse possibilità di questo esperimento mentale illustrano le relazioni causali che intercorrono fra processi cerebrali meramente funzionali, stati coscienti e comportamento esterno. Considerate nel loro insieme, le tre varianti descrivono il rapporto che sussiste tra mente e comportamento, il quale porta a chiedersi quanto il comportamento sia importante per il concetto di mente. Tre sono i possibili punti di vista: da un punto ontologico, il comportamento pare essere irrilevante; da un punto di vista epistemico, il comportamento ci mette in modo parziale a conoscenza degli stati mentali coscienti di coloro che vivono nel mondo; da un punto di vista causale, la coscienza funge da mediatore delle relazioni tra input ambientali e output comportamentali. Di cruciale importanza è aver ben chiari i concetti chiave trattati da questa argomentazione, ovvero che l’ontologia del mentale è soggettiva – poiché ogni stato mentale è necessariamente di qualcuno ed esiste esclusivamente come fenomeno vissuto in prima persona – e che colui che osserva potrebbe credere realmente che l’individuo scrutato sia del tutto incosciente. Ma se considerato da un’ottica soggettiva il problema non si pone affatto, dal momento che l’individuo non ha dubbi sul proprio essere cosciente, sebbene egli non possa fornire prove che lo dimostrino oggettivamente.



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