La natura dei soggetti pensanti è in grado di determinare quali siano le affermazioni, che avanzano una qualche pretesa conoscitiva, che essi possono pensare.
Vero è che un’ epistemologia di questo tipo implica una teoria causale della percezione, la quale sostiene che gli oggetti che percepiamo trascinano con sé intere catene di eventi che, inclusa nel loro insieme la stimolazione dei nostri organi sensoriali, fanno si che nelle proprie menti vi siano dati sensoriali.

Le teorie materialistiche sostengono che l’idea che i dati sensoriali siano identici ad eventi fisici interni nostro cervello – di recente, in alcune variazioni su questa tematica, è stata formulata l’ipotesi che simili eventi non siano altro che un sottoinsieme delle rappresentazioni mentali.

Prima della concezione cartesiana, la filosofia dominante della percezione era quella di Aristotele, secondo cui la forma di qualcosa di percepibile può essere una proprietà percepibile: ad esempio, possiamo assumere “caldo” toccando cose calde o mediante la sua privazione entrando in contatto con oggetti “freddi”. Tuttavia la tesi aristotelica lasciava aperte non poche perplessità, dal momento che non ci dice esattamente in che senso la mente assuma la forma di “caldo” o “freddo”; da essa si evince soltanto il suo senso generale, cioè che ciò che percepiamo come “caldo” e “freddo” sono rispetto a noi esterni.
Per ripensare l’intera dottrina aristotelica in modo da correggerla nelle sue pecche, si dovrà attendere l’empirismo di Hume e le associazioni di idee.

Con Cartesio – spinto dal bisogno di sedare le proprie preoccupazioni scettiche minimizzando il ruolo della percezione nella conoscenza – si assiste al tentativo di matematizzare la natura, ossia di concepire la natura come regno della matematica, dove ogni relazione è esprimibile in virtù di formule matematiche e dove idea come “calore” o “colore”, non trovando posto alcuno in una simile concezione, vengono designate come mere affezioni soggettive della mente.
La moderna filosofia della mente si propose di accettare la dottrina cartesiana, conservando però integro il ruolo delle proprie percezioni, giungendo all’idea che l’esperienza propria sia qualcosa che ha integralmente luogo all’interno del cervello, concepito quest’ultimo come mondo interno del tutto disgiunto dal mondo esterno al punto tale che non ha senso ritenere che l’esperienza rassomigli a ciò di cui è esperienza (tesi questa fortemente sostenuta da Berkley).

Ciò che Putnam intende mostrare è come una simile teoria riguardante la percezione renda impossibile la comprensione di un modo possibile per riferirsi alle cose esterne, proponendo un ritorno al cosiddetto "realismo diretto" o "realismo naturale".

L’ intera discussione prende le mosse dalla questione scettica dell’epistemologia, quella cioè secondo la quale vi sono esperienze percettive (visive, tattili, uditive, olfattive ecc.) che mancano di veridicità in senso stretto, della quale Cartesio viene considerato una sorta di portavoce.

Il punto che a Putnam interessa maggiormente riguarda l’ipotesi del Sogno Integrale che Cartesio descrive nella prima meditazione. La scelta del sogno, quale esempio di illusione ordinaria, è l’ideale per asserire al fatto che ciò che osserviamo è, talvolta, puramente mentale; altri esempi (come il bastone in acqua che sembra spezzato) mostrano in maniera molto meno convincente ciò che l’esempio del sogno, invece, riassume alla perfezione, giacché essi si limitano a considerare l’inaffidabilità di una percezione di cui sappiamo l’ illusorietà.

L’ esperienza del sogno risolve alla perfezione il problema della percezione di qualcosa di mentale, problema che avrebbe trovato maggiore acutizzazione se avessimo fatto affidamento solo a ciò che viene normalmente definito come allucinazione: è proprio in virtù del fatto che tutti abbiamo dei sogni, sostiene Putnam, che non giudichiamo noi stessi e gli altri affetti da allucinazioni. Tutti noi abbiamo dei sogni, facciamo cioè di essi esperienza, ed essi, quando sono particolarmente realistici, ci offrono l’ immagine di un’ esperienza in cui abbiamo l’impressione come di percepire qualcosa, mentre in realtà non ci è dato nulla che possa essere in qualche modo percepito; eppure colui che sogna sta percependo qualcosa, e se non è nessun oggetto fisico allora sarà un oggetto di qualche altro genere (da qui l’assunto che tutto ciò che non è fisico è per forza mentale).
Difficile era per Cartesio definire la maniera in cui avvenisse un’ esperienza simile, resa ancora più complessa dalla mancanza di un qualsiasi meccanismo che spiegasse come gli eventi nel cervello producano dati sensoriali o come la mente osservi supposti oggetti.

Il fatto che in sogno si abbia l’impressione di percepire qualcosa si basa su termini assai peculiari.

In primo luogo, in evidenza viene posto il problema di come i dati sensoriali, o qualia, possano essere osservati.
Di essi possono essere distinte due nozioni differenti, quali: una funzionale, nel senso che avere un «qualia-blu» equivale ad avere quella specie di dato sensoriale che si ha quando si vede un qualcosa che, in base a certi canoni standard condivisi, è «blu»; ed una qualitativa, nel senso che avere un «qualia-blu» equivale ad avere la «qualità-blu» che si associa privatamente alla parola «blu», qualità che può o non può corrispondere a quella che un altro soggetto può avere della stessa parola – ma questo noi, giacché viviamo al di fuori della sua facoltà sensitiva, non potremo saperlo mai. Secondo questa concezione, quando raggruppiamo i dati sensibili sulla base delle loro caratteristiche funzionali si utilizza la nozione funzionale, mentre quando le raggruppiamo in base alle loro caratteristiche qualitative lo facciamo in base a concezione neurologiche; ciò presuppone che i qualia appartengano ad una teoria scientifica, o anche solo potenzialmente scientifica, che può essere ridotta alla fisica senza il pericolo di perdere qualcosa di più intrinseco.

Putnam rifiuta radicalmente questa posizione.
Se tutto ciò che deve essere ridotto sono le relazioni tra colori si aprono numerose possibilità, poiché vi sono sia relazioni tra i processi nell’ occhio che corrispondono alla maggior parte dei colori che siamo in grado di rilevare – ossia a quei colori che normalmente vediamo – sia relazioni siffatte che esistono tra i vari processi della corteccia visiva – ossia tutti quei processi neurofisiologici che avvengono tra l’ occhio ed il cervello affinchè un colore sia visto nel modo corretto (il fatto è che è impossibile identificare i qualia per mezzo degli occhi, dato che possiamo ricevere indirettamente sensazioni di colore anche dopo aver perso l’ uso della vista). Ciò implicherebbe che ogni spiegazione relativa ai qualia sottintenda di essere qualcosa di cui noi stessi siamo consci, ma non è plausibile l’ idea che si possano ridurre le leggi implicanti il concetto di «coscienza», in quanto per l’ epistemologia tale concetto deve necessariamente essere inteso come accessibilità al pensiero. Se ne deduce che questi dati sensoriali, o qualia, non sono proprietà delle cose come sono in sé stesse, ma sono nella mente, ossia in noi propriamente, operanti sia dall’ interno verso l’ esterno che dall’ esterno verso l’ interno. La tradizionale dicotomia tra qualità primarie e secondarie era di stampo metafisico: le qualità primarie rappresentano i modi in cui le cose sono realmente sé stesse, mentre quelle secondarie rappresentano i modi in cui esse modificano il percepire umano. Possiamo chiarire cosa si intende con un esempio: un colore non appare nello stesso modo se è posto direttamente sotto la luce o se è in ombra, ma nessuna delle due condizioni può essere considerata anomala (ben si capisce dunque che anche i colori possiedono modi propri di apparire).

In questo quadro ci troviamo in una vera e propria situazione di inerzia, nel senso che non vi è differenza alcuna tra considerare i modi di apparire delle cose come aspetti irriducibili della realtà che dipendono dal mondo in cui sono percepite, o considerare i modi di apparire delle cose come disposizioni atte a produrre qualia.
La vera grande difficoltà è capire in che modo la propria mente possa essere in contatto con il mondo esterno, la cui conseguenza è l’ idea che la percezione necessiti di una specie di interfaccia tra mente ed oggetti esterni. Nel dualismo si supponeva che questa interfaccia fosse costituita dalle impressioni (qualia) concepite come entità immateriali, mentre nel materialismo si riteneva che tale interfaccia consistesse in processi cerebrali.

All’ analisi del problema riguardante la percezione si collega anche quello relativo all’immaginazione, facilmente spiegabile attraverso un esempio: immaginare delle fragole è tradizionalmente pensata come la formazione di qualcosa del tutto simile ad un’immagine di esse, ad eccezione del fatto di essere mentale, per cui interamente interna alla mente. Le scienze cognitive moderna si conformano a questa concezione di rappresentazioni mentali. Nel trattare i problemi circa la percezione e l’immaginazione, Putnam introduce la concezione nota come epifenomenismo, concezione secondo la quale gli stati mentali non hanno efficacia causale, riguardante propriamente i qualia esperienziali. Sappiamo che l’esperienza sensibile ci è data dalla percezione, nel senso che essa ci fornisce una rappresentazione delle cose esterne; la concezione tradizionale delle teorie di rappresentazione è quella del Teatro Interno, idea stando alla quale i colori che vediamo direttamente non sono altro che oggetti che compaiono nel proprio teatro interno (nonostante la difesa di Putnam per un realismo diretto o del senso comune, la concezione dominante in filosofia della menta è rappresentata da un miscuglio eterogeneo di dualismo e materialismo, vale a dire da una combinazione tra l’ idea del Teatro Interno cartesiano e le numerose teorie materialistiche).

Nell’ ambito cartesiano/materialistico della percezione, gli input percettivi rappresentano il limite delle proprie operazioni cognitive di elaborazione, per cui tutto ciò che si trova al di fuori della propria pelle si trova anche al di fuori delle proprie procedure cognitive di elaborazione. Secondo la teoria causale della percezione gli oggetti che percepiamo danno origine a catene di eventi – che includono le stimolazioni provenienti dagli organi di senso – le quali danno luogo ai dati sensoriali della mente. Nel porsi la domanda se l’ oggetto che vediamo sia realmente quello che ci appare non mettiamo in discussione il fatto che esso ci appaia effettivamente in quel modo, bensì il fatto che vi sia adeguatezza fra realtà ed apparenza.
A tal proposito, lo scetticismo per Cartesio ha sì lo scopo di ricercare la certezza abbattendo ogni dubbio, ma è anche finalizzato all’ adozione di un metodo per misurare la tenuta delle credenze, accettate come vere ma in realtà soggette a dubitabilità; la trasformazione di tutti i giudizi dubbi in giudizi falsi fonda il «criterio del vero», in quanto vengono distinti dai giudizi che non sono minimamente sfiorati dal dubbio, cioè i cosiddetti giudizi certi. Ciò di cui si può – e si deve – dubitare sono le cose materiali, così come si deve dubitare della convinzione secondo la quale la conoscenza più vera deriva dai sensi. L’ argomento del «Sogno integrale» mostra in modo evidente ed esaustivo la concezione cartesiana dell’ assoluta fallibilità dei sensi, laddove le esperienze sensibili risultano incapaci sia di afferrare la natura dei corpi (inganno dei sensi) sia di attestare l’ esistenza di qualcosa di interno alla mente (sogno). Il dubbio ha quindi il carattere di essere globale ed integrale, in quanto si dubita della realtà sensoriale, poiché è prevista la possibilità di guardare da una postazione esterna che «stiamo sognando» e non esperendo qualcosa in modo reale ed autentico.

Memore dell’ esperienza del sogno cartesiano, Putnam sviluppa una versione moderna e fantascientifica di esso, quale perfetta incarnazione della possibilità di adeguatezza della realtà con l’apparenza.
Noto con il nome di "Cervelli in vasca", l’esperimento mentale è il seguente:

Immaginiamo che uno scienziato pazzo sottoponga un essere umano (che potrebbe essere anche uno di noi) ad un crudele intervento: il cervello viene distaccato dal resto del corpo e mantenuto in vita all’ interno di una vasca contenente sostanze nutrienti; i terminali nervosi vengono collegati ad un potentissimo computer di ultima generazione, il quale fa si che l’individuo di cui quello è il cervello abbia l’illusione che sia tutto normale. La persona sarà dunque convinta che vi siano altre persone, paesaggi ed oggetti, ignorando che tutto ciò che sente sia in realtà il risultato di impulsi elettrici; non solo, il computer è talmente potente che, se la persona tenterà di alzare una mano, gli impulsi trasmessi dalla macchina fanno si che egli “veda” e “senta” la propria mano che si alza.
Lo scienziato è in grado anche di far si che la vittima “provi” qualsiasi situazione ed ambiente semplicemente cambiando il programma del computer: "Alla vittima potrà perfino sembrare di essere comodamente seduto a leggere queste stesse parole che raccontano del caso ipotetico, divertente ed assurdo, di uno scienziato crudele che distacca dal resto del corpo il cervello delle sue vittime per metterlo in una vasca piena di sostanze nutrienti che lo mantengono in vita".

Ma l’esperimento non finisce qui: poniamo il caso che, invece di un solo cervello, all’interno della vasca vi siano i cervelli di tutti gli esseri umani. Se è così, ovviamente, lo scienziato dovrà trovarsi al di fuori di questa vasca (oppure no); ma potrebbe anche non esistere alcun scienziato tanto folle, perché potrebbe darsi il caso che l’ intero Universo non sia altro che una colossale macchina automatica che governa una vasca colma di cervelli. Ammettendo il caso dell’Universo come macchinario automatico, supponiamo l’ipotesi che esso sia programmato in modo tale da creare un’ allucinazione collettiva: in tal modo, quando a me sembrerà di sentir parlare te a te sembrerà di sentire le mie parole, sebbene non sia come se tu o io stessimo parlando realmente, in quanto siamo entrambi privi di vere orecchie e vere lingue. Per cui, quando pronunciamo le nostre parole, gli impulsi che emanano attraversano il mio cervello ed approdano al computer, e contemporaneamente Io sarò in grado di sentirmi pronunciare le parole e muovere la bocca, così come Tu sarai capace di sentire le mie parole e percepire il fatto che io stia realmente parlando.

Nell’esperimento di Putnam la rappresentazione sensibile si trasforma nella reale possibilità di una totale illusione, o sogno. Il presupposto che si pone alla base di ciò afferma che l’inganno dei sensi avviene poiché nemmeno le esperienze sensibili – che a noi sono quanto di più intimo e vicino – sono in grado di attestare l’esistenza di qualcosa nel mondo esterno.

Quello che Putnam difende è un realismo interno, o empirico, che abbandoni radicalmente l’ idea di ogni duplicazione ontologica e che consideri le cose nel mondo come geneticamente incarnate in oggetti fenomenici, cioè in oggetti che ci appaiono in quel certo modo di cui facciamo diretta esperienza, senza con ciò nulla togliere all’idea che la conoscenza del mondo avvenga essenzialmente in virtù di operazioni soggettive interne, per mezzo cioè di operazioni che accadono esclusivamente nel singolo soggetto in un determinato modo.