Ogni luogo, ogni ente del nostro mondo si mostra pervaso da quella intangibile pellicola che chiamiamo «significato» o «essenza» dell’Essere. E laddove sembra non esservi senso alcuno vi è presto fatto trovare. Nulla deve restare privo di senso perché nulla può essere privo di senso: ogni singola cosa che è ha in sé necessariamente un senso con cui si identifica e che propriamente la fa essere ciò che è. Seguendo questo principio, se nulla può essere privo di senso appare assurdo e contraddittorio porre in questione l’esistenza del Nulla, dove con simile termine si intende designare il non essere. Sebbene lo spettacolo dell’Essere non può non apparire immediatamente vero, scontato, occorre riconoscere che, per quanto se ne fugga, aleggia tanto nei nostri pensieri quanto nel nostro linguaggio l’idea del Nulla; sembra quasi un paradosso il fatto che per poter parlare del non essere delle cose – o l’assenza dell’essere dalle cose – si ricorra alla necessità di doverlo comunque nominare; e se ciò che appartiene al nostro linguaggio appartiene di conseguenza al nostro mondo è una conseguenza logica sostenere che anche il nulla appartiene al nostro mondo. Per dirla con le parole di Wittgenstein, «la proposizione è un modello della realtà come noi la pensiamo»: per cui dire nulla significa riferirsi ad un pensiero, a qualcosa della realtà. Sebbene ogni nostra parola, ogni nostra azione e ogni nostro gesto siano un costante tentativo di fuggire al nulla, spesso liquidato come momentanea ignoranza di qualcosa che solo attende di essere scoperta, questa sorta di spettro impone costantemente la sua presenza, inseguendoci come l’ombra che ci trasciniamo appresso. Ecco quindi svelata la doppia natura delle cose: per un verso il mondo appare illuminato dalla luce rassicurante dell’Essere, mentre, per l’altro verso, questo stesso mondo possiede un’ombra, un oscuramento dell’Essere che fa apparire le cose nella maniera in cui non sono. Una volta scoperto che tutte le cose hanno un’ombra e che essa è conseguenza propria dell’Essere, la visione idilliaca di un mondo totalmente pervaso dall’Essere e dal senso ad esso intrinseco e spontaneo, in virtù del quale l’esistenza stessa del nostro mondo e di tutti gli esseri assumono una qualche finalità all’interno del disegno cosmico dell’esistenza, viene bruscamente interrotta.

Nel corso dell’intero processo storico si assiste all’incessante tentativo di cercare le cosiddette verità ultime per fissarle una volta per tutte, tale da poter derivare da esse quel senso autentico ed universale di cui crediamo essere fatto il mondo nella pluralità dei suoi enti. Tanto la filosofia quanto la scienza si sono immolate in questa missione, ricercando, ognuna secondo i propri metodi di indagine, quel sostrato sul quale l’Essere poggia e si edifica – ciò viene chiamata propriamente verità proprio in quanto non più soggetta a mutamento alcuno. L’osservazione di fatti empirici, la possibilità di analizzarli e riprodurli, e la verificazione di essi costituiscono le fasi mediante le quali l’indagine scientifica deve procedere, tale per cui possiamo comprendere il meccanismo della natura e del funzionamento delle cose che troviamo nel mondo. La costante evoluzione del processo scientifico, in tal senso, sembra essere la solo a contemplare la possibilità di trovare, in un futuro più o meno prossimo, la reale natura degli enti e quale sia il loro funzionamento effettivo al di là di qualsiasi credenza o pregiudizio possa formarsi intorno ad essi; tuttavia, occorre precisare che proferire il vero o il falso di qualcosa non equivale affatto a svelarne il senso intrinseco che si cela nella sua esistenza, il suo essere così e così e nel suo funzionare in una data maniera. La scienza spiega come gli enti sono e come essi funzionano, ma non fornisce alcun perché della loro esistenza o quale sia la loro essenza. Le teorie scientifiche sono risposte affidabili e veritiere, ma non sono quelle che i ricercatori dell’Essenza vogliono, giacché risultano manchevoli in sé di tale facoltà, fredde e sterili, dunque incapaci di spiegare il senso ultimo delle cose. Quella che nel corso del tempo è andata sempre più palesandosi è l’illusione che l’evoluzione del processo scientifico, forte del suo carattere analitico e rigoroso, fosse capace di offrire attraverso la spiegazione del «come» qualcosa sia anche il «perché» di questo stesso qualcosa. Il mito della scienza quale ricerca delle verità ultime viene sgretolandosi definitivamente in età moderna. A caratterizzare le sue teorie non sarà più l’apparente indubitabilità ritenuta raggiungibile nei secoli passati, bensì la loro adattabilità, ovvero il loro essere ritenute vere fino a prova contraria – quello che Carnap chiamerà convenzionalismo scientifico. Sembra, in tale senso, che il mondo, ben lungi dal costituirsi come qualcosa di dato una volta per tutte, sia qualcosa che necessita continuamente di essere riscritto: se tutto si offre nella modalità della provvisorietà, sotto la perenne minaccia di essere negato in qualsiasi momento da teorie più plausibili che sostituiscano quelle esistenti, l’idea stessa di mondo come qualcosa di dato svanisce con l’antica concezione di poter trovare la verità ultima delle cose.

L’illusione della verità risulta essere anche illusione dell’apparenza, voce questa della cattiva novella che fa sì che si divenga improvvisamente coscienti che nulla possiamo conoscere se non verità provvisorie ed effimere, contravvenendo così alla necessità propriamente umana di sopperire alla mancanza di risposte soddisfacenti la propria brama di sapere, costituente il tratto distintivo della nostra natura. Se per un verso siamo riusciti a far luce su ciò che prima appariva oscuro, per quell’altro scopriamo essere in realtà avvolto nell’ombra ciò che prima appariva rischiarato dalla luce dell’evidenza. L’impossibilità di cogliere tutto non è solo qualcosa che semplicemente disturba l’uomo, bensì lo terrorizza, tale che egli percepisce questa impossibilità come un trovarsi sull’orlo di una voragine senza fondo: il terrore annientante del Nulla. Non importa quanto qualcosa giunto a conoscenza possa rivelarsi spaventoso, poiché ciò che rimane ignoto ed enigmatico sarà sempre e comunque più terrificante. La nostra vorace volontà di conoscenza si costituisce quale desiderio infinito che non può essere appagato in alcuna maniera se non momentaneamente. La luce disvelante di cui lo sviluppo del sapere sembra gettare sul mondo si svela essere una tenebra ancora più profonda, giacché la produzione incessante di verità frammentarie ed effimere altro non fanno che polverizzare quei miseri fondamenti al di sopra dei quali l’umanità ha fondato le radici della propria esistenza, costituendo catene di credenze e valori creduti assolutamente dati ed eterni. Tanto il mondo quanto la propria esistenza si svelano, quindi, in tutta la loro provvisorietà, fragilità e mortalità. Tutto appare destinato alla vanificazione, poiché tutto ugualmente inconsistente, effimero e in sé privo di senso, compresa la nostra stessa esistenza.

Tutto è nulla. Le «cose esistenti» ed i «modi di essere», ovvero gli essenti, sono nulla. L’affermazione della nullità di tutte le cose, sé stesso compreso, appare prepotente e perentoria fin dai primissimi scritti di Leopardi, fra i quali si legge «Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo anche savio, ma più tranquillo, e io stesso certamente in un’ora più quieta conoscerò la vanità e l’irragionevolezza e l’immaginario». Qual è il senso attribuibile all’affermazione secondo cui le cose esistenti sono nulla? Le cose esistenti, proprio in quanto esistenti, non possono non essere, ovvero non possono essere nulla; ma l’esser nulla delle cose esistenti in Leopardi non è da intendere nel senso che le cose sono senza importanza o prive di valore, bensì che sono nulle, destinate inevitabilmente ad annullarsi. «E’vano anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s’annullerà». Tutto è nulla, dunque, poiché tutto destinato ad annullarsi, compreso il dolore stesso e la disperazione che tale consapevolezza suscita nell’animo. Il dolore è nulla proprio perché destinato a passare, a dissolversi come qualsiasi altra cosa esistente; l’importanza che il dolore, il proprio primariamente, relativo alla propria fragilità ed alla paura che da essa deriva, non ha valore in sé in quanto tale, bensì unicamente nella misura in cui Io solo riconosco averne. Il dolore, in quanto cosa esistente nella misura in cui Io riconosco essere esistente, è nulla, poiché destinato ad annullarsi diventando nulla, e una volta divenuto nulla, rimane nulla. Tutto è nulla poiché tutto si annulla, passa, svanisce; e proprio in quanto tutto appare destinato ad annullarsi e svanire, questo non può che scaturire da quel medesimo nulla verso cui volge.

Ma qual è la natura di questo immenso nulla che tutto avvolge e permea di cui Leopardi sente una così viva presenza? È davvero un assenza, un vuoto dell’esistenza arido ed infertile come appare, oppure nasconde una doppia natura nascosta? Abbiamo innanzi detto che Leopardi percepisce le cose essere nulla, scaturire dal nulla e ritornare al nulla stesso, e proprio in quanto è qualcosa di percepito, sentito, ben appare che questo nulla è lontano dal descrivere un’assenza o un vuoto dell’essere. Se le cose scaturiscono dal nulla, questo non può che essere qualcosa di infinitamente potenziale, ricco, se non la fonte primaria dell’essere stesso. In quale modo qualcosa che etichettiamo come nulla può costituire fonte primaria dell’essere ed infinita potenzialità di esso? La soluzione di questo arcano indovinello degno d’esser concepito dalla mente arguta della Sfinge viene rivelata dallo stesso Leopardi: l’essere scaturisce dal nulla che fa essere, transita, permane e si rigetta nel nulla che annienta l’essere stesso, tale per cui esso è in sé nullo. Affermare che le cose esistenti sono nulla costituisce l’evidenza originaria dell’essere, l’evidenza prima ed estrema del divenire perpetuo del tutto. L’essere è in quanto diviene eternamente, in quanto puro sostare nella mutevolezza che lo fa essere nella modalità del non-essere. Ciò che rende le cose esistenti ed i loro modi di essere tali nulla è il divenire connaturato alla loro essenza. In Leopardi, prima di Nietzsche ed Heidegger, trova magicamente espressione la grande influenza della filosofia greca sul pensiero Occidentale moderno, che per prima ha portato alla luce il senso reale ed autentico intrinseco all’ente [τò ŏν]: esso in quanto è «ciò che è», è ciò che oscilla fra l’essere ed il nulla, laddove «ciò che è», è ciò che prima non era, ciò che non sarà e che avrebbe potuto non essere affatto; in quanto l’ente è ciò che oscilla fra l’essere ed il nulla, in esso è connaturata la tendenza all’assoluta disponibilità di sé, disponibilità assoluta ad essere prodotto e distrutto in maniera perpetua ed eterna. La grandezza del pensiero di Leopardi si evince dalla trasparenza del suo linguaggio che non lascia spazio a dubbi o incomprensioni, ed alla sua capacità magistrale di dimostrare che affermare la nullità delle cose esistenti non costituisce contraddizione: appoggiandosi al principio di ragionamento assoluto, che si fonda sul principio stesso della nostra ragione, è da intendersi come il principio di non-contraddizione aristotelico – e che lo stagirita chiama «principio fermissimo» – presentato come ciò che, se fosse negato, renderebbe impossibile la stessa possibilità di parlarne. Non può esistere discorso laddove vi è contraddizione. E la natura stessa, in quanto esistenza stessa che si offre in tutta la sua piena evidenza, e dunque ragionamento assoluto, impedisce di supporre l’esistenza di contraddizioni in sé. Il pensiero di Leopardi mostra che affermare che le cose esistenti sono nulla in quanto tali non costituisce contraddizione proprio perché questa non è affatto una contraddizione «evidentissima e formalissima», bensì l’evidenza originaria dell’essere stesso e della quale, proprio in quanto evidenza originaria, non è possibile dubitare. Le cose esistenti sono nulla in quanto sono state e ritorneranno ad essere, inevitabilmente, nulla; e fino a che esse sono rimangono escluse dal nulla, in quanto il loro essere-nulla riguarda il loro passato ed il loro futuro, non la contingenza. Nel momento in cui le cose esistenti sono e di esse si può dire che scaturiscono e ritornano nel nulla, esse sono per il momento salve dal nulla che le ha originate e verso cui torneranno.

«Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla». Il pensiero di Leopardi, che più di qualsiasi altro sembra afferrare con mano la questione dell’Essere come «solido nulla», si propone non di gettare uno sguardo sul nulla, bensì di collocarsi in una certa posizione tale da consentire uno sguardo dal nulla: gettare uno sguardo a partire dal nulla medesimo è sguardo che, pur essendo rivolto sul mondo dove tutto è nulla, scaturisce da un più alto sentimento di «vuoto universale» e «vanità», tale per cui non solo il mondo e l’esistenza dell’uomo poggiano sul nulla ma «è vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s’annullerà, lasciandomi in un voto universale, e in un’indolenza terribile che mi farà incapace anche di dolermi». Il nulla, in Leopardi, non costituisce tanto un esito o un destino finale al quale tutto finisce inevitabilmente per approdare, quanto piuttosto l’origine propria di tale abisso, il principio di questo tutto che tende al nulla in quanto tale. Le cose appaiono avvolte dalla nullità poiché il nulla è l’evidenza prima dell’essere, tale per cui gli enti (ossia le cose che sono) emergano dall’abisso del nulla solo per tornarvi in un tempo successivo, dissolvendosi ad opera del divenire perpetuo del tutto e svanendo come se essi non fossero mai sorti. L’idea del divenire perpetuo del tutto costituisce una vera e propria fede – della quale lo stesso Leopardi ne rappresenta un fedele seguace – che dà luogo ad una vera e propria follia, in quanto «il reale essendo un nulla» non costituisce affatto quella che Leopardi definisce una «contraddizione evidentissima e normalissima», bensì che le cose sono nulla perché sono state e torneranno ad essere nulla tanto nel loro passato quanto nel loro futuro. Rispetto a questa follia non si prospetta altra storia per l’Occidente se non la storia del nichilismo, della quale Leopardi ne è il primo vero rappresentante e che più dei filosofi avvenire ne ha messo ben in chiaro la natura.

La follia entro la quale il pensiero d’Occidente rimane intrappolato è quella che ritiene di non essere contraddizione: questo, difatti, non afferma affatto che le cose sono nulla fintanto che sono, bensì afferma che le cose sono nulla nel momento in cui esse non sono ancora e quando non sono più. L’essenza del nichilismo è l’essenza dell’Occidente, in quanto pervaso dal pensiero della nullità delle cose, ma, rispetto alla quale, se ne tiene a distanza di sicurezza, poiché, qualora riuscisse realmente a raggiungerla e scorgerne i tratti autentici, ne vedrebbe la follia e l’alienazione estreme. L’evidenza suprema che domina la visione del mondo nell’Occidente moderno, la sua essenza stessa, è quella che concepisce un tempo in cui le cose sono nulla (passato) ed un tempo in cui esse torneranno ad essere nuovamente nulla (futuro); all’interno di tale visione, l’essere è ciò che pur essendo inserito nel tempo, ne viene inevitabilmente divorato. Ciò che Leopardi intende descrivere non una qualche ontologia negativa insita nel suo pensiero, quanto piuttosto una negazione ed un rifiuto di qualsiasi ontologia. Rispetto al pensiero moderno ed all’essenza del nichilismo, Leopardi si trova sulla linea più avanzata che il pensiero avvenire dell’occidente può raggiungere, essendo l’unico a rivelarsi capace di pensare e dire che poiché le cose si annullano ed escono dal nulla, sono-nulla; ma proprio perché Leopardi è essenzialmente pensatore che incarna l’essenza dell’Occidente, pur trascinandosi al limite del dicibile e del pensabile, tuttavia non oltrepassa la linea di demarcazione che lo divide da tale limite né può oltrepassarla. Del nulla, infatti, non si può dire se non ciò che esso non è. Le conclusioni sul piano emotivo psicologico alle quali Leopardi approda, di fronte alla transitorietà dell’esistenza e di tutte le cose che le appartengono, sono straordinariamente moderne, anticipando in qualche modo quella sorta di malessere generale che sembrerà pervadere gli animi degli uomini moderni resisi coscienti dell’assoluta mancanza di senso del tutto – quel malessere che in Sartre trova mirabile espressione con il termine nausea, quale senso di fastidio, tedio e disgusto per la vita in sé vista nella sua più cruda mancanza di senso. A differenza, però, della visione fondamentalmente pessimistica della filosofia moderna innanzi alla presa di coscienza di questa totale assenza di senso, in Leopardi l’assenza del senso e la transitorietà delle cose assumono valore straordinariamente positivo. Possiamo capire meglio questo passaggio proponendo un ipotetico confronto tra il pensiero di Leopardi fin qui espresso circa l’essenza della provvisorietà del tutto e la descrizione in termini medico-psichici di essa che Freud ci offre nel breve saggio del 1915, intitolato Caducità, analizzando le ripercussioni emotive che tale coscienza suscita; l’analisi viene principalmente focalizzata sulle reazioni psicologiche rilevabili una volta che l’intimo senso di caducità e vanità delle cose belle, rammemoranti l’estrema ed inevitabile provvisorietà del vivere stesso, appare ulteriormente illuminante se posta innanzi alle brillanti intuizioni che Leopardi aveva già abilmente formulato e descritto più di mezzo secolo prima della nascita della scienza psicanalitica.

Proprio come abbiamo riscontrato in Leopardi, anche nel saggio freudiano la visione della bellezza, anziché suscitare un puro e disinteressato piacere, svela drammaticamente l’estrema transitorietà del tutto, delle cose terrene e di quelle cosmiche, in una sorta di spettacolo che mette in scena l’illusione dell’eterno. A partire dalla percezione che tutte le cose sono inesorabilmente destinate all’annichilimento ad alla dissoluzione, Freud distingue e descrive due diversi moti dell’animo ad esso conseguenti: il primo è ciò che egli definisce un doloroso tedio universale, termini utilizzati dallo stesso Leopardi e che rimandando direttamente al suo pensiero, mentre l’altro può essere espresso come un senso di rivolta contro questo dato di fatto, qualcosa che ci porta a gridare «No! È impossibile che queste meraviglie della natura e dell’arte, che le delizie della nostra sensibilità e del mondo esterno debbano veramente finire nel nulla […] In un modo o nell’altro devono riuscire a perdurare, sottraendosi ad ogni forza distruttiva». E proprio come Leopardi, alla stessa maniera Freud contesta il fatto che la transitorietà e caducità delle cose, e della bellezza in modo particolare, implichino un loro svilimento, bensì ne potenziano infinitamente il valore. Il «valore della caducità» è un valore di rarità nel tempo, nel senso che la limitazione della possibilità di godimento delle cose di cui facciamo esperienza aumenta il loro pregio, rendendole per cui massimamente meritevoli d’essere amate ed apprezzate. Solo perdendo ciò che amiamo, o semplicemente ci procura un sentimento di piacere, risveglia in noi l’importanza vitale che tal cosa possiede, e la presenza di ciò che diviene una schiacciante assenza è ciò che propriamente possiede quel valore della caducità. L’essenza della caducità delle cose è un valore dotato di essenziale importanza, traducibile quale valore «di tutta questa bellezza e perfezione è determinata soltanto dal suo significato per la nostra sensibilità viva, non ha bisogno di sopravviverle e per questo è indipendente dalla durata temporale assoluta […] Il lutto per la perdita di qualcosa che abbiamo amato o ammirato sembra talmente naturale che il profano non esita a dichiararlo ovvio. Per lo psicologo invece – e massimamente enfatizzato per il poeta – il lutto è un grande enigma, uno di quei fenomeni che non si possono spiegare ma ai quali si riconducono altre cose oscure».


Immagine tratta da: www.joystiq.com