Si parla, si parla, si parla anche troppo ma troppo poco ci si capisce, troppo poco si comunica!
Che cosa rende una conversazione tra due o più individui un’ occasione di scambio reale, effettivo, un “evento comunicativo”? Che cosa trasforma il “parlare” nel “comunicare”?


L’idea di scrivere questo articolo mi è venuta qualche sera fa: stavo parlando del più e del meno al telefono con un mio amico di vecchia data quando ad un tratto lui mi ha detto –“Non ti sento, non capisco quello che mi dici, sembra che tu stia parlando in una scatola”- Ecco io stavo parlando ma non stavo comunicando, non c’era comunicazione perché l’altro non riceveva ciò che io stavo cercando di trasmettergli, stavo parlando a vuoto, nel vuoto, anzi, in una scatola!

Dunque il primo requisito della comunicazione è lo scambio che avviene solo quando l’individuo o gli individui a cui mi rivolgo riescono a ricevere ciò che io dico e per ricevere è, innanzitutto, indispensabile comprendere. La comprensione del messaggio non si appiattisce sulla semplice ricezione dei vocaboli ma necessita anche della loro decodificazione: il mio interlocutore mi capisce se capisce la pretesa di validità che io sto avanzando attraverso le mie parole o, detto altrimenti, se oltre a capire il significato letterale delle singole parole recepisce cosa io voglio intendere nel complesso con il mio messaggio.
Ho citato le “pretese di validità”, qui mi rifaccio ad Habermas che ha scritto innumerevoli libri e articoli sul rapporto tra linguaggio e comunicazione e sulla “comunicazione ideale” quale fondamento della morale.

Le pretese di validità sono tre:
1. Verità
2. Giustezza
3. Veridicità

La prima appartiene alle asserzioni che si riferiscono al mondo oggettivo dei fatti, del tipo “Un gatto è sulla quella sedia”: con questa affermazione io ho sollevato la “pretesa linguistica” di dire qualcosa di Vero riguardo ad un fatto che avviene nel mondo esterno, oggettivo, indipendentemente da me e dalle mie credenze o dai mie stati d’animo (che io sia triste o felice, che io ci creda oppure no se un gatto in quel momento si trova su quella determinata sedia non cambierà in base ai miei umori o alle mie convinzioni).
La seconda appartiene alle proposizioni normative che fanno riferimento al mondo intersoggettivo delle norme, del tipo “La violenza deve essere punita”: in questo caso io non sto descrivendo un fatto che ha luogo nel mondo esterno ma sto esprimendo un giudizio in merito all’universo normativo che regola i rapporti tra due o più soggetti e tale universo normativo non è indipendente dai soggetti medesimi in quanto le norme sono frutto di scambio e cooperazione, sono “create” dagli individui che poi vi devono obbedire. Pertanto con suddetta proposizione io avanzo la pretesa di dire qualcosa di Giusto, di normativamente corretto e condivisibile.
La terza, infine, appartiene al mondo interiore del singolo e fa riferimento a tutte quelle proposizioni che riguardano il suo proprio “sentire”, i suoi privati stati d’animo. Se io dico “Mi sento triste” avanzo la pretesa che l’altro capisca il mio stato d’animo e mi creda, pretendo che creda che io effettivamente mi sento come dico di sentirmi, che creda alla mia sincerità, alla mia Veridicità.
Affinchè vi sia effettiva comunicazione e non semplice “parlare” è necessario che l’altro riconosca le mie pretese di validità e le accetti, ovvero che riconosca la mia volontà di trasmettere qualcosa di Vero o Giusto o Veridico all’interno della situazione comunicativa.
Da parte mia, d’altronde, è indispensabile la rinuncia a qualunque fine esterno alla comunicazione stessa, ovvero la rinunicia allo strumentalizzare la comunicazione per fini altri: se, ad esempio, sostenessi “Mi sento triste” senza realmente esserlo ma per indurre il mio interlocutore a fare qualcosa per me senza chiederglielo esplicitamente, allora non starei comunicando ma cercando di strumentalizzare l’altro attraverso un finto comunicare, starei parlando ma non comunicando.
Anche qualora io fossi realmente triste ma l’altro non riconoscesse la veridicità della mia frase e non mi credesse non potrebbe verificarsi l’evento comunicativo in quanto l’altro non riceverebbe il messaggio che io vorrei trasmettergli, in questo caso io parlerei a vuoto, parlerei “in una scatola”.
Del resto è altresì chiaro che nemmeno nel caso in cui l’altro mi credesse o accettasse una mia pretesa di validità sotto ricatto, minaccia o violenze potrei sostenere che l’evento comunicativo ha avuto luogo: requisito fondamentale è che il riconoscimento e l’accettazione delle pretese di validità sollevate sia del tutto libero e privo di costrizioni di alcun genere; l’altro deve poter scegliere se credermi oppure no, se essere d’accordo con me su una norma oppure no altrimenti non staremmo comunicando ma uno dei soggetti starebbe mettendo in atto una forma di prevaricazione. Quindi un’altra caratteristica fondamentale della comunicazione è la rinuncia da parte di tutti coloro che vi prendono parte all’uso della violenza e della prevaricazione sugli altri.
Infine la pari considerazione degli interessi e delle pretese di tutti i partecipanti alla situazione comunicativa è un altro requisito imprescindibile per trasformare il “parlare” in una comunicazione vera e propria: se io pensassi soltanto a ciò che io ho da dire e non mi impegno anche a comprendere l’altro, a comprendere le sue ragioni e le sue pretese di validità allora io starei, nuovamente, parlando in una scatola e non comunicando; la reciprocità e, quindi, la pari considerazione di tutti i soggetti coinvolti è fondamentale affinché l’evento comunicativo abbia luogo.

Bibliografia
J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo,trad. it. di G. E. Rusconi, Il Mulino, Bologna 1986.
J. L. Austin, Come fare le cose con le parole, a cura di C. Penco e M. Sbisà, trad. it. di C. Villata, Marietti, Genova 1987.



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