La ricerca di sé può essere considerata a buon diritto la più fitta, annosa, intricata, complessa e faticosa impresa incompiuta dell'uomo conosciuto.
Non che nel corso della storia non siano prosperate acute riflessioni ed interpretazioni, anzi.
Le religioni orientali basano la maggior parte dei loro precetti sull'autoconsapevolezza, dalla pratica meditativa Yoga per una conoscenza di se stessi in armonia con l'universo circostante, fino al Reiki, pratica spirituale dalle apparenti proprietà terapeutiche e curative.
Non di meno spiccano per illuminato acume le massime di esponenti storici e letterari di grande importanza, che però proiettano il problema della ricerca verso un fattore prevalentemente emozionale, rigenerante: ricerca di se stessi come ricerca della felicità. Ma in questo caso si varca il confine tematico sprofondando in un abisso, meraviglioso quanto articolato, della definizione di felicità in tutte le sue accezioni.

A riguardo Blaise Pascal rompe ogni indugio: l'uomo supera infinitamente l'uomo. Come a dire che la felicità non esiste e se esiste, quantunque gustosa ne sia ogni singola porzione, è effimera, rapida a deperirsi, immediatamente superata dalla necessità atavica di cercare nuovi obiettivi, nuove “felicità”.
Ordunque, dove risiede il sé? Dove orientare la ricerca?
La panacea d'ogni male si trova forse nell'antica Grecia, i cui baluardi di cultura offrono un ramo d'ulivo riassumendo tutto in un motto: conosci te stesso.
Così semplice da sembrare inverosimile. E quindi, paradossalmente, troppo inverosimile per non essere vero.
Ma che fosse probabile non era mai stato messo davvero in discussione.
Anzi, probabilmente ci troviamo di fronte alla più lapalissiana delle affermazioni (con buona pace del povero maresciallo francese, ingiustamente ricordato come profusore di ovvietà), cui Talete, o Chilone a seconda delle fonti, non fa seguito con opportune didascalie correlate.
Alle didascalie mancanti sopperiscono, tuttavia, le successive innumerevoli interpretazioni, che spaziano dalla conoscenza di sé stessi intesa come consapevolezza dei propri limiti, a più mistiche e profonde riletture: conosci te stesso, e conoscerai Dio.
Ma è Socrate a raggiungere forse l'area più vicina al nucleo: conosci te stesso, e conoscerai il mondo. L'una senza l'altra non rappresenta dunque una conoscenza completa. Una mela platonica applicata allo scibile.
Non che il grande studioso e filosofo spieghi davvero la metodologia cui attingere per arrivare a tali conoscenze, ma forse riesce a fare di più: fornisce all'uomo il maggior incentivo possibile (o almeno il più raggiungibile in sede terrena) quale la conoscenza del mondo, conferendo quindi una maggior importanza al "cosa" piuttosto che al "come".

Alla luce di una tale chiave di lettura, dunque, gli strumenti a disposizione per conoscere l'infinito mistero che siamo noi diventano infiniti, e tutti validi.
Fra essi, però, l'epoca moderna ne fornisce uno davvero potente, incredibilmente ricco di possibilità e del tutto comune: il Cinema. Questo immenso spazio aperto colmato da sogni celati, da desideri talvolta mai concepiti, da speranze riposte.
Il più amabile, o se non altro il più fruibile, dei mezzi comunicativi e comunicatori.
Non di meno però, anche il più ambiguo.
Questo meraviglioso termine che deriva da “Ambage” [let. Giro], ancor prima che da “Ambiguus”, ci regala la più felice delle spiegazioni: qualcosa che può essere preso da due o più parti. Tortuoso.
E il cinema può essere infinitamente tortuoso.
Siamo di fronte infatti all'unico mezzo di comunicazione di massa che unisce l'immagine alla parola, fornendo un prodotto, che noi chiamiamo “storia”, in tutto e per tutto verosimile, e dunque assimilabile.
Non è sempre stato così, nel corso della storia la comunicazione cinematografica ha attraversato numerosi mutamenti, talvolta radicali.
Mentre all'inizio ci si innamorò della Settima arte per la sua incredibile capacità di trasmettere il "vero" (indimenticabile, in tal senso, il famoso treno in stazione proiettato dai Lumière), con lo sviluppo tecnologico si andò ben oltre.
All'inizio degli anni '30 il cinema smise di essere pura arte visiva e grazie all'avvento della parola divenne qualcosa di più: realtà. Rappresentazione reale o ideale della realtà.
Era stato scoperto il vaso di Pandora.

La prima metà del Novecento, dunque, ci regalò una solida convinzione: il Cinema era Magia. Non avrebbe potuto spiegarsi altrimenti l'ascendente che i filmati propagandistici ebbero sul popolo, fossero essi soldati tedeschi o giovani casalinghe americane orgogliose dei propri mariti impegnati al fronte.
L'esempio italiano più evidente fu Roberto Rossellini, dapprima con una serie di opere dal forte valore patriottico e in seguito, grazie alla fine del conflitto e alla rinnovata autonomia artistica, con alcune tra le pietre miliari della cinematografia mondiale, raccolte sotto l'effige del neo-realismo italiano.
Ma questa è la storia, che per riverenza e bisogno di premessa, andava citata. Il Cinema oggi è ben lontano dalle velleità realistico-rappresentative di un tempo. L'orbita in cui gravita ora estende i propri confini tra due poli ben definiti: Se stessi e l’esatto opposto.
Nonostante, trattando il binomio psiche-cinema, affiorino alla memoria diretta capolavori come A beautiful mind, Shining o Il silenzio degli innocenti, è necessario fare un doloroso sforzo e superare tali opere, così abili a raccontare l'introspecto umano in tutte le sue sfumature e distorsioni, per giungere alla vera magia del nuovo millennio filmico.
Il coniglio dal cilindro un secolo fa era il racconto del “vero”, adesso è l'Identificazione.
Cosa sia realmente successo e come, non è tutt'oggi chiaro. Quel che è certo è che da un punto preciso della storia in poi, l'essere umano ha sentito il bisogno di trasportare ciò che vedeva, nella realtà. Un processo inverso, innovativo, consapevole di sé stesso e delle modifiche sostanziali che portava, e porta, alle consuete abitudini dello spettatore.

La saga Star Wars di George Lucas conta centinaia di Fan Club, a loro volta portatori sani di migliaia di appassionati in tutto il mondo. La tematica fantascientifica dell'opera ha generato dagli anni Settanta in poi quella che viene definita la "SW Way", una rielaborazione attiva da parte del fan che tende ad essere assorbito dalle attività del club, tutte incanalate verso l'ampliamento dell'universo narrato nei film, l'assegnazione di specifici ruoli, la definizione di precise date e ricorrenze (in America è stato istituito uno “Star Wars Day”, il 4 Maggio, festeggiato in tutto il mondo) nonché tutta una serie di Live Roleplays con costumi, idiomi e nomenclature ben definite.
Cosa implica tutto questo? L'etologo Desmond Morris sembra avere le idee chiare, almeno per i bambini: Star Wars fa bene. Nel suo saggio "Child" afferma con certezza che la visione di alcune opere come Guerre Stellari favorisce lo sviluppo cognitivo, la capacità di assimilazione e la memoria.
Sugli adulti la faccenda assume connotati ambivalenti: mentre da una parte viene universalmente riconosciuta come positiva quella serie di attività ludiche volte a coltivare un interesse o una passione verso qualcosa (come una saga cinematografica, traendo dunque sano vantaggio dal valore di identificazione che arricchisce la nostra fantasia) dall'altra può sopraggiungere un aspetto nocivo (trasferimento di personalità, alterazione percettiva della realtà etc) descritto da numerosi esperti del settore ma definito perfettamente da Pietro Boccia nel suo libro "Psicologia": il rischio maggiore è la compensazione delle proprie carenze di identità attraverso l'ausilio di fattori esterni.

Torna il concetto di Sé e di ricerca, interpretato, in questo caso, negativamente. I vuoti pneumatici di personalità riempiti da personalità "alter" generano inevitabilmente un processo sostitutivo, che viene visto come un'attività extra-naturale. La cronaca ne è testimone: quante volte capita di apprendere di individui colti da raptus omicida, o peggio, sorpresi in attività continuative illecite in tutto e per tutto ispirate alle gesta di anti-eroi cinematografici o televisivi?
Gli esempi sono spesso uniti da una riflessione comune: dove la ricerca di sé stessi genera risultati non soddisfacenti, può subentrare il bisogno di alterarne le basi, sostituendole con quelle di elementi iconici della comunicazione.
L'ancora di salvezza da una disamina apparentemente pessimistica è rappresentata dal lato opposto della medaglia, ove il concetto di Immedesimazione si avvicina molto di più a quello di Ispirazione, finalmente scevro, dunque, da controindicazioni di natura psicologica.

Opere come Into the wild, Il piccolo Buddha o Sette anni in Tibet lambiscono il territorio della ricerca del Sé permettendo però allo spettatore una disamina completamente autonoma, in cui gli strumenti forniti dalla struttura narrativa si limitano a rappresentare sfumature (vagamente mistiche) della vita, senza però iconizzare un personaggio di riferimento. Esse si concentrano sull'”insieme” attorno a una sola figura anziché sul suo contrario.
Conoscere se stessi per conoscere il mondo.
Il rapporto film-fruitore, in questo caso, si posiziona su un asse in perfetto equilibrio in cui l'utente tende a scegliere (o escludere) colmando quel centro con la propria struttura base, senza alterarla.
I brevi accenni che precedono, in sintesi, suggeriscono un maxi-cosmo in continua evoluzione al cui interno domina il rapporto conflittuale fra uomo e cinema, uomo e storia, uomo e se stesso. La certezza che resta inalterata è che l'insieme di sinapsi che costituiscono il nostro essere siano recettori vivi di stimoli esterni, e gli stimoli esterni si rinnovano ogni giorno.
Che sia il cinema a sollecitarli, o meno.
In altre parole, ognuno di noi è un'identità in costante evoluzione, la cui ricerca ha sempre un inizio ma mai, realmente, una fine. A differenza di un film.