Essere una rock star è, nella nostra cultura, sinonimo di un successo clamoroso. È uno dei nostri simboli preferiti di prestigio e notorietà – ed è un obiettivo che praticamente nessuno di noi ha una vera speranza di raggiungere. Ma quando giochi a Rock Band 2, ti ritrovi ad ambire al pantheon del rock, con una strizzatina d'occhi (McGonigal 2011, trad. mia)

L’obiettivo dei videogiochi musicali di maggiore successo commerciale (le serie Rock Band e Guitar Hero) è esplicito: far vivere al giocatore la carriera di una rock star, dagli esordi in locali di nicchia ai concerti-evento nelle arene che hanno fatto la storia della musica moderna. In prima persona, il player (giocatore/suonatore) può impugnare l’asta di un microfono, imbracciare una credibile imitazione di chitarra e basso, oppure sedersi dietro una batteria di plastica e far risuonare le note di Beatles, The Who, Ramones, Nirvana, e centinaia di altri artisti di successo.
Il meccanismo psicologico sottostante a questo processo di imitazione nel gioco è stato descritto nei suoi termini generali da Caillois (1958), con il nome di mimicry:

Ogni gioco presuppone l’accettazione temporanea, se non di un’illusione (per quanto quest’ultima parola non significhi altro che entrata in gioco: in-lusio), almeno di un universo chiuso, convenzionale e, sotto certi aspetti, fittizio. Il gioco può consistere non già nello sviluppare un’attività o nel subire un destino in un contesto immaginario, ma nel diventare noi stessi un personaggio illusorio e comportarci in conseguenza. Ci troviamo allora di fronte a tutta una serie di manifestazioni che hanno come caratteristica comune quella di basarsi sul fatto che il soggetto gioca a credere, a farsi credere o a far credere agli altri di essere un altro. Egli nega, altera, abbandona temporaneamente la propria personalità per fingerne un’altra.

Nel videogioco, tale mimetismo ha il proprio baluardo nell’avatar.

L’avatar rappresenta il giocatore all’interno del videogioco da un punto di vista spaziale (il posizionamento nello spazio di gioco), nonché potenziale: è l’elemento sorgivo della possibilità di interagire con l’ambiente virtuale. Pertanto, esso non è solo un’immagine, bensì il prendere corpo dell’io del giocatore nella in-lusio cailloisiana, la sua protesi digitale (Fraschini 2004).
A livello semantico, il rapporto tra avatar e giocatore può assumere forme diverse. Non stupisce, pertanto, che al variare di queste configurazioni corrispondano differenti atteggiamenti psicologici (Fraschini 2004; Lombardi in stampa).
Nel caso dell’avatar trasparente o indeterminato, il rapporto è fondamentalmente astratto: il simulacro del giocatore è sì presente, ma privo di elementi significativi. Si riduce solitamente a un puntatore (come nei più comuni giochi di carte) o a un oggetto privo di connotazione semantica (ad esempio, i blocchi colorati di Tetris). In questo contesto l’avatar «rappresenta quindi la più semplice propaggine del giocatore all’interno della simulazione videoludica, che non ne altera, se non in minima parte e non sempre [...] la personalità in gioco» (Lombardi in stampa).
La protesi digitale veicolo è tipica delle simulazioni di volo e di guida, in cui la presenza virtuale del giocatore è rappresentata da abitacoli, manubri, timoni, cabine di pilotaggio. In questi videogiochi, il simulacro è determinato, ma non particolarmente significativo a livello di mimicry – comunemente, infatti, l’identificazione non si ha con il mezzo meccanico, bensì con chi lo manovra. La possibilità di «immaginarsi alla guida, senza altri oggetti virtuali carichi di senso [...] tra sé e la simulazione di una vettura o di un velivolo» (ibidem), si traduce in un mimetismo ancora piuttosto labile nell’altro da sé.
Più forte è la presenza dell’altro da sé, invece, nei videogiochi che coinvolgono un avatar di tipo maschera: un’immagine che «può essere più o meno definita ma generalmente rimane piuttosto priva di spessore» (Fraschini 2004). È la figura, ad esempio, del generico marine di Doom, o dell’ignota protagonista di Portal – priva di particolari caratterizzazioni o eccessivi dettagli, ma rappresentante un’alterità fittizia per il giocatore. Chi gioca si trova in posizione ambigua tra l’interpretazione del ruolo del character e riconoscimento dello stesso come alieno dal sé: la situazione della festa in maschera o del travestimento.
L’avatar personaggio ha una propria identità e personalità. Questi è naturalmente controllato dal giocatore, ma la sua forte caratterizzazione non permette che il giocatore stesso vi si immedesimi; piuttosto, il rapporto che si crea è una sorta di débrayage tra uomo e simulacro (Maietti 2004; Lombardi in stampa). È il personaggio il filtro attraverso il quale il giocatore partecipa emotivamente alla narrazione ludica: la mimicry tocca in questo scenario il proprio acme. Non a caso, l’avatar personaggio è pressoché sempre visualizzato in terza persona. Inoltre, molti personaggi dei videogiochi hanno, in virtù della loro forte personalità virtuale, addirittura “scavalcato lo schermo”, e penetrato il tessuto culturale internazionale, assurgendo a vere e proprie icone. Così Super Mario, Duke Nukem, Guybrush Threepwood, Lara Croft.

Nei giochi musicali della serie Guitar Hero, i protagonisti sono diversi personaggi, con caratteristiche estetiche e funzionali (a livello di gameplay) proprie. In molti dei videogiochi della serie Rock Band, invece, l’avatar è personalizzabile – un fattore, quest’ultimo, che provoca una tendenza peculiare: il ricreare nel protagonista le fattezze del giocatore, magari con l’aggiunta di un taglio di capelli non convenzionale o un’estrosità d’abbigliamento che solo una rock star si potrebbe permettere. In questo caso, il simulacro virtuale si carica di un ulteriore e inedito significato: è il doppelgänger del giocatore, una sorta di doppio in cui il giocatore stesso trasferisce momentaneamente il proprio sé, i propri desideri e aspirazioni. Ha ragione dunque McGonigal (2011) quando scrive che tu stesso, giocatore, «ti ritrovi ad ambire al pantheon del rock». Il meccanismo della mimicry sembra in questo caso non sufficiente a descrivere la portata di tale trasposizione del sé nel gioco – probabilmente, sarebbe più corretto parlare di immedesimazione.
Le caratteristiche dell’interfaccia di Rock Band, inoltre, contribuiscono a rafforzare questa supposizione.

La massima parte dei videogiochi musicali per console sfrutta infatti, come periferiche di interfaccia, dispositivi che imitano – nella forma, e in diversi gradi anche nella funzione – dei veri strumenti musicali. Interagendo con questi strumenti, sottolinea ancora McGonigal (ibidem, trad. mia), «interpreti il ruolo in un modo che viene percepito come genuino, poiché si tratta di un'esperienza attiva e diretta»
Il microfono per primo, in effetti, è sotto ogni punto di vista un dispositivo paragonabile a un prodotto professionale, sia come apparenza sia come prestazioni. L’in-lusio dello strumento è talmente forte che non è insolito ritrovarsi a bistrattare l’asta telescopica in imitazione della presenza scenica di Freddie Mercury, mentre si esaspera il proprio apparato fonatorio nel tentativo di stare dietro alle armonie vocali di Bohemian Rhapsody.
Anche la batteria, a detta di molti professionisti (Davies 2009), è una ragionevole imitazione del vero strumento. Soprattutto nella sua versione pro, che aggiunge gli elementi sopraelevati dei piatti ai già esistenti pad e pedale, appare simile vera a una batteria elettronica. L’atto stesso di suonarla è realistico: seduti con le bacchette in mano, si riproducono i movimenti tipici dei batteristi, saltando da un pad all’altro e pestando come ossessi sul pedale per tenere il tempo degli impossibili assoli di percussioni in Painkiller – producendo quella che è, a tutti gli effetti, una credibile sezione ritmica. È difficile, suonando la batteria in Rock Band, non galvanizzarsi al punto da riempire i fill di batteria con le più estrose (e rumorose) rullate, che tanto esaltano il sé quanto esasperano i vicini di casa.
Il concetto di fondo dello strumento polivalente chitarra/basso è invece più astratto. Come sottolinea Arsenault (2008, trad. mia):

Il gioco promette principalmente di far accedere al sogno comune di essere superstar del rock che suonano di fronte a vasti pubblici, e non di garantire una vera fedeltà di simulazione dell'atto di suonare la chitarra. Questo non significa che il gioco non proponga un modello accurato dell'atto di suonare la chitarra; piuttosto, si focalizza maggiormente sul divertimento e sull'accessibilità che sul realismo.

Suonare l’inconfondibile riff di Smoke on the water con la chitarra in Rock Band, dunque, non richiede di pizzicare corde e imparare la posizione delle dita corrispondente ai vari accordi. Il meccanismo dei frets, pulsanti colorati da premere in sequenze di diversa complessità a imitazione degli accordi, e della strum bar, propaggine da muovere su e giù seguendo il ritmo della canzone, richiama un concetto di “performing music”, più che di “playing music” (Juul 2007). Come glossa McGonigal (2011):

Premere diverse combinazioni di frets richiama la sensazione di ordinare le dita sulle corde per suonare diversi accordi, e spostare la strum bar su e giù richiama il movimento della pennata sulle corde. Dal punto di vista del realismo, tu suoni seguendo gli stessi ritmi che un vero chitarrista seguirebbe, e le tue dita si muovono davvero con destrezza lungo il manico della chitarra, così come accadrebbe su una vera tastiera. Non è un vero atto di suonare musica, ma è un eseguire azioni musicali e ritmiche in una maniera che, a sensazione, è strettamente correlata al brano originale.

Al di là delle differenze di realismo tra gli strumenti, il discorso percettivo di fondo è pressoché invariabile: le periferiche di cui Guitar Hero e Rock Band fanno uso permettono un aumento della percezione del sé nel gioco e alimentano la willing suspension of disbelief (Alinovi 2004), diminuendo lo spessore della membrana narrativa (Conteddu 2009) che separa giocatore e simulacro. Sempre Conteddu (ibidem) nota come «le periferiche giovano sensibilmente a quella sensazione di immersione che si è soliti associare alla pratica videoludica».

Allo stesso tempo, tuttavia, le periferiche stesse sono l’ultimo baluardo, la parte più resistente della succitata membrana, che separa realtà e finzione. Ogni controller, indipendentemente dalla sua forma, è per sua stessa essenza una barriera fisica, che sottolinea la presenza di un ambiente di gioco, nel quale valgono regole proprie e specifiche (Juul 2005; Salen & Zimmerman 2005), ponendosi da mediatore tra il giocatore e lo strumento simulativo. Il fatto stesso di stringere un qualche tipo di telecomando, infatti, impedisce quella fusione totale tra gioco e realtà che si tradurrebbe in confusione, nell’incapacità di distinguere lo spazio ludico dallo spazio fisico che già spaventava Caillois (1958).
Lo stesso Caillois, sulla scia del pioniere degli studi sul gioco Huizinga (1939), ha definito alcune caratteristiche che ogni gioco deve possedere a livello esplicito, per evitare di cadere in atteggiamenti patologici. Il gioco deve essere un’attività:

- libera, non costretta;
- separata, quindi circoscritta nel tempo e nello spazio;
- incerta, dall’esito indeterminato;
- improduttiva, ossia senza ripercussione sullo spazio-tempo non ludico;
- regolata da norme condivise dai giocatori e operanti solo all’interno del gioco;
- e infine fittizia, consapevolmente limitata entro un contesto immaginario.

A partire da tali elementi, Juul (2005, trad. mia) propone una definizione che meglio si adatta alle caratteristiche del videogioco:

Un gioco è un sistema basato su regole con un esito variabile e quantificabile, in cui a diversi esiti sono assegnati diversi valori, in cui il giocatore si sforza di influenzare l'esito e si sente emotivamente attaccato all'esito stesso, e in cui le conseguenze dell'attività sono negoziabili.

La riflessione aggiunta sull’attaccamento emotivo agli accadimenti virtuali si adatta ottimamente alla descrizione dei videogiochi musicali finora esaminati. Il giocatore è in prima persona il protagonista dell’azione, anche se traslato in un avatar – e grazie a questo e alle periferiche musicali egli ha dal gioco una soddisfazione tutta reale: quella di distruggere chitarre sul palco come il miglior Pete Townshend, di mandare in delirio la folla, di far risuonare il mondo del proprio rock.

Riferimenti bibliografici

Alinovi F. (2004), Serio videoludere. Spunti per una riflessione sul videogioco, in M. Bittanti (a cura di), Per una cultura dei videogames. Teorie e prassi del videogiocare, Unicopli, Milano, pp. 17-55.

Arsenault D. (2008), Guitar Hero: “Not Like Playing Guitar At All”?, in Load- ing..., 2 (2). Retrieved June 6, 2012, from http://journals.sfu.ca/ loading/index.php/loading/article/view/32.

Caillois R. (1958), Les jeux et les hommes. Le masque et le vertige, Gallimard, Paris; tr. it. a cura di L. Guarino (1981), I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani “Nuovo Portico”, Torino.

Conteddu A. (2009), La reinvenzione delle interfacce fisiche nel contesto videoludico. Il caso di Nintendo Wii, Retrieved June 6, 2012, from www. cinetecadibologna.it/files/archivi/videoludico/pdf/interfacce_ wii.pdf.

Davies C. (2009), Pro Drum Kit Mod into Full-Size Rock Band Controller, in Slash Gear, January 11, 2009. Retrieved June 6, 2012, from www.slashgear.com/pro-drum-kit-mod-into-full-size-rock-band-controller-119585/.

Fraschini B. (2004), Videogiochi & New Media, in M. Bittanti (a cura di), Per una cultura dei videogames. Teorie e prassi del videogiocare, Unicopli, Milano, pp. 17-55.

Huizinga J. (1939), Homo Ludens. Versuch einer Bestimmung des Spielelements der Kultur, Pantheon, Amsterdam.

Juul J. (2005), Half-Real: Video Games between Real Rules and Fictional Worlds, MIT Press, Cambridge (MA).

Juul J. (2007), In Rock Band, actually play Drums and Sing, in The Ludologist, December 13, 2007. Retrieved June 6, 2012, from www.jesperjuul.net/ ludologist/in-rock-band-actually-play-drums-and-sing.

Lombardi I. (in stampa), Game [not] over. I videogiochi come strumento per la glottodidattica ludica, Guerra, Perugia.

Maietti M. (2004), Semiotica dei videogiochi, Unicopli, Milano.

McGonigal J. (2011), Reality is Broken. Why Games Make Us Better and How They Can Change the World, Penguin Press, New York.

Salen K. & Zimmerman E. (2004), Rules of Play: Game Design Fundamentals, MIT Press, Cambridge (MA)-London.