L’interesse per il tema della depressione nasce a seguito di una serie di letture, tra cui il testo del sociologo Ehrenberg “La fatica di essere se stessi”, che mi hanno portato a riflettere non solo sull’importanza che assume oggigiorno la depressione, sempre più presente e sempre più diffusa, ma anche sul dinamismo del fenomeno, che con il tempo e i mutamenti sociali cambia forme e significati.

Partendo dai presupposti della teoria della complessità di Morin ho osservato la depressione secondo diverse prospettive. Nel guardare al mondo interno del depresso ho individuato due nuclei psicodinamici fondamentali nella depressione: il lutto e la colpa. Mi sono soffermata poi sul vissuto del depresso da un punto di vista fenomenologico, concentrandomi in particolar modo sull’esperienza della temporalità e della corporalità.

Il contributo, invece, della sociologia e dell’etnopsichiatria riguarda la possibilità di ampliare lo sguardo sul tema della depressione, da una prospettiva prevalentemente intrapsichica ad una prospettiva che tenga conto dei fattori sociali e culturali, importanti per comprendere i mutamenti che il fenomeno depressione sta attraversando.

Approfondendo tali punti di vista, rispetto alla prospettiva psicodinamica ho inizialmente preso in considerazione due polarità della depressione, sulle quali si concentra Blatt partendo dalla sua teoria dello sviluppo della personalità. Sto parlando della polarità anaclitica (dal greco: appoggiarsi), orientata verso le relazioni interpersonali, e della polarità introiettiva, orientata verso la definizione di sé.

Se il depresso in senso anaclitico teme di rimanere solo e di essere abbandonato, il depresso in senso introiettivo si sente difettoso ed è molto autocritico.
Da qui le tematiche da un lato della perdita, del lutto patologico, e dall’altro della colpa.

A proposito del lutto mi sono soffermata non solo sulla sofferenza derivante da un lutto reale, ma soprattutto sul significato del lutto psicologico, che può attenere altresì ad aspetti simbolici e che riguarda la relazione con l’oggetto interno. Freud afferma infatti che se nel lutto è il mondo a subire una privazione, nella melanconia è il sé del soggetto. Più precisamente diventa povero e vuoto il sé del soggetto che si era identificato con l’oggetto che viene perduto.
Nel rapporto con questo oggetto interno si instaura poi la dinamica della colpa che si fonda su un’aggressività rivolta verso il sé, di cui parla ad esempio la McWilliams.
Il soggetto non riesce a gestire l’ambivalenza tra odio ed amore nella relazione con l’altro, e per preservare la relazione, oltre che evitare i vissuti di impotenza, convoglia l’aggressività che sarebbe verso l’altro verso una parte di sé. La scissione della fase schizo-paranoide di cui parla la Klein viene in seguito superata dalla fase depressiva attraverso l’integrazione tra gli elementi buoni e quelli cattivi, integrazione che si manifesta con il senso di colpa. Il senso di colpa può essere usato poi, positivamente, tramite gli atti riparativi, legati alla simbolizzazione e alla creatività.

Nel punto di vista fenomenologico sulla depressione mi riferisco innanzitutto alla distinzione di Stanghellini fra tristezza e mancanza di sentimento.
La tristezza è un sentimento comune che varia in senso patologico per durata e intensità. Stanghellini considera invece la mancanza di sentimento come criterio fondamentale della depressione: il soggetto non si identifica con la sua tristezza ma si sente separato da essa, non riesce a provarla e di questo si rammarica ed autorimprovera.

Ho trattato inoltre le alterazioni del vissuto del tempo e del corpo presenti nel depresso, le quali riguardano la relazione con il mondo. Da un lato infatti la trasformazione del tempo interno non permette al soggetto depresso di orientarsi nel mondo: il passato con i suoi vissuti di colpa blocca la fluidità e l’evoluzione temporale e fa sì che non esista altra possibilità che quella già compiuta. Sono preclusi così una prospettiva verso il futuro, un progetto di vita per l’avvenire, la speranza e il desiderio.
Dall’altro il corpo smette di essere un medium con la realtà esterna e diviene una statua di cera rinchiusa nei suoi confini, in una dimensione autistica: la persona depressa si chiude nel silenzio, il suo sguardo e i suoi gesti smettono di comunicare. Da realtà soggettiva diviene oggettivata, immobile, devitalizzata, inibita, caratterizzata da vissuti di depersonalizzazione.
Rispetto al contributo della sociologia sulla depressione ho preso come riferimento la trattazione che ne fa Eherenberg. Egli mette in evidenza il venir meno, con l’ateorico DSM-IV, delle distinzioni su base eziologica della depressione. Ma ancora di più diventa difficile in questo modo differenziare uno stato di tristezza esistenziale, fisiologica, comune a tutti gli uomini, dalla depressione vera e propria. Un ruolo fondamentale in ciò lo ha la diffusione degli psicofarmaci, i quali veicolano una particolare concezione non solo della cura ma anche della patologia.

La depressione viene sempre più sganciata dai sistemi di senso e ricollegata alle alterazioni biologiche, posizione verso la quale Borgna e Coppo sono molto critici. In questo panorama lo psicofarmaco viene proposto come la soluzione di tutti i mali, benché il suo effetto sia solo temporaneo e riguardi il sintomo.
Al concetto di guarigione si sostituisce quello di cronicità, cronicità della patologia ma altresì cronicità della cura.
Un altro aspetto analizzato dal sociologo è il passaggio da una società vincolata alla legge esterna, al dovere, ad una società, dopo gli anni ‘60, in cui le norme vengono messe in discussione. Viene meno quell’idem, per rifarci a Napolitani, che da un lato può essere costrittivo, ma dall’altro pone le basi per la formazione dell’individuo. Il soggetto così è lasciato solo con se stesso e su di lui ricade l’intera responsabilità di realizzazione. L’altra faccia di questa smisurata apertura di possibilità è quella che Ehrenberg chiama “la fatica di essere se stessi”, espressa nelle forme di inibizione e di blocco della depressione.

Andando alla posizione etnopsichiatrica osserviamo come Coppo si concentri sulla funzione patoplastica che la cultura assume nella depressione, intesa come messa in forma della malattia attraverso i suoi sistemi di concezione e di cura. L’autore inoltre ritiene che la questione natura e cultura sia un falso problema in quanto afferma che ad essere universale sia il dolore, la sofferenza dell’uomo, e la cultura invece gli dia una forma specifica. Nella nostra cultura occidentale la chiamiamo depressione e diviene una malattia.
Viene meno sempre di più la rete, la relazione, la dimensione comunitaria, basilare tuttavia in culture altre. L’individuo occidentale, piuttosto, è sempre più solo, schiacciato dal mito dell’autonomia e dall’imperativo di competere con l’altro, come fanno notare Cianconi ed Ehrenberg.
E tutto questo si lega alle trasformazioni delle manifestazioni della depressione: non più incentrata sulla colpa, sul senso di vergogna, poiché è reciso il legame dell’individuo con la collettività, con la norma.
La depressione diviene sintomo del vuoto che l’individuo porta dentro di sé.
La dialettica identitaria infatti è ferma all’ autòs, e quindi l’uomo può difficilmente orientarsi verso un progetto futuro ma rimane ancorato all’istantaneità, al presentismo, di cui parlano rispettivamente Stanghellini e Bonomi.
Recalcati, su questa linea, si concentra sulla perdita dell’inconscio e del desiderio. Quest’ultimo a causa del venir meno della legge, del limite, diviene puro godimento. Godimento che non può pensare all’avvenire ma che è circoscritto all’immediato “tutto e subito”.
Possiamo dire infine che l’utilizzo di differenti lenti, che a volte hanno anche dei punti di contatto, risulta molto importante nell’approfondimento della complessità della depressione. L’apertura alle riflessioni e al dialogo possono contribuire non solo all’individuazione di alcuni punti più critici del fenomeno, ma possono permettere anche di elaborare delle modalità per affrontarli, come autori quali Borgna e Fedida hanno fatto. Si sono infatti riferiti al valore dell’ascolto dell’altro, della relazione autentica, del legame con la comunità e del tempo della guarigione, dimensioni che come abbiamo visto sono al giorno d’oggi sempre più manchevoli e problematiche.