Amo profondamente l’arte. In genere non mi lascio sfuggire le esposizioni o le mostre temporanee ospitate dalla mia città o quelle che posso cogliere mentre viaggio. Ma soprattutto l’arte mi sembra una splendida opportunità formativa da portare in aula.

Da tempo siamo a conoscenza degli effetti benefici che l’arte infonde ai suoi fruitori o di come il linguaggio artistico consenta l’espressione di sè attraverso la proiezione di vissuti interiori e la comunicazione simbolica delle proprie emozioni.
Alcune opere parlano meglio di noi degli argomenti che potremmo affrontare in aula o li introducono con un’intensa forza evocativa, ma soprattutto offrono delle possibilità di riflessione e lettura di sé o del contesto spesso sottovalutate.

Ovviamente non è necessario che i nostri allievi conoscano gli autori e le loro opere, ma semplicemente che siano offerte loro come uno stimolo da cui far scaturire riflessioni, rappresentazioni, intuizioni. L’opera può pertanto rappresentare un buon punto di partenza per avviare un percorso o per sistematizzare ragionamenti in corso di produzione o, in conclusione, per consolidare gli apprendimenti. Non è richiesto alcuno sforzo interpretativo dell’opera, ma semplicemente la disponibilità evocativa che “l’immersione sensoriale” dell’opera produce. In sintesi, non importa tanto quello che l’autore vuole comunicare, ma quello che l’opera comunica a me, in questo momento.

Personalmente, ho utilizzato molte opere, più o meno note, nel corso dei miei interventi formativi.
Alcune opere di Klimt (Le età della donna, Bisce d’acqua, per citarne alcune) mi hanno affiancato nelle docenze sulla psicologia dello sviluppo femminile; Pubertà di Munch ha avviato le lezioni sull’adolescenza (mi sembra che la nudità e l’imperscrutabile sguardo della protagonista ci raccontino moltissimo sulla crisi adolescenziale). Diverse opere mi hanno aiutato a parlare della costruzione, crisi e ridefinizione di identità, come Icaro di Matisse, Decalcomania di Magritte o le ben note Scale di Escher.
Ultimamente ho riscoperto Hopper, un artista che avevo sottovalutato in passato e a cui mi sto affezionando molto. Hopper rappresenta spesso nelle sue opere luoghi di sosta, di transizione, di passaggio (camere di motel, sale d’attesa, pub, cinema, pompe di benzina, ferrovie) che trasmettono una sensazione di attesa, come di qualcosa che possa accadere o una svolta che produrrà un cambiamento. Sono spazi spesso vuoti e desolati, ma che non mi sembrano molto diversi dai nostri grandi centri urbani e metropolitani, segnati da una grande concentrazione umana, da un continuo incontro e scontro anonimo di persone. Per citare alcune opere di Hopper: Cinema a New York, Ufficio in un piccola città, Estate, Sole mattutino, Automat, Camere vicino al mare.

Mi piace immaginare questi spazi come paesaggi interiori, dove lo sguardo dei protagonisti può indugiare alla ricerca di segnali, dove il pensiero può raccogliersi in una concentrazione introspettiva. Lo spazio fisico si carica di significati improntati al cambiamento.

Viviamo in un’epoca segnata dalla precarietà, dalla provvisorietà e dall’inquietudine. Ma questo è anche il terreno per una riflessione su di sé e lo sviluppo di possibilità e soluzioni. Gli spazi vuoti sono anche spazi per pensare, per capire, per cambiare.


Immagine: Icarus di Matisse