Risolvere operazioni numeriche, leggere una storia o una poesia, risolvere degli esercizi scolastici, appuntare delle note, ecc.: una serie di azioni che, per essere effettuate, hanno bisogno di un supporto cartaceo e di una biro. Grazie a questi due semplici strumenti, infatti, l’uomo riesce a compiere una lunga serie di operazioni che, tra l’altro, facilitano anche la memorizzazione; del resto, ciò che si scrive resta impresso nella mente con una forza maggiore, inoltre, soprattutto se si tratta di impegni, le pagine di un’agenda possono sempre memorizzare al posto nostro la lista dei servizi da svolgere nell’arco della giornata, purché ci si ricordi almeno di consultare i propri appunti.

Abituato, ormai, il lettore a saltare avanti e indietro nel tempo, il riferimento a quel mondo classico sia greco che latino, da cui abbiamo ereditato un grande patrimonio, è inevitabile.
Prima ancora che la tecnologia evolvesse, tanto da rendere quasi superfluo l’utilizzo dei tradizionali mezzi di scrittura, quali, appunto, la carta e la penna, i Romani, così come i Greci, si servivano di una tavoletta e di uno stilo metallico: si trattava, per la precisione, di un supporto in legno levigato al centro, con una cornice rialzata tutt’intorno; sulla parte centrale veniva poi stesa una cera e sulla superficie levigata di quest’ultima si incidevano, con lo stilo, i numeri, le note, le liste della spesa per le donne, le liste dei debitori per i grandi commercianti, gli appunti di scuola e gli esercizi per gli studenti. A volte, poi, più tavolette cerate venivano forate sullo stesso bordo e legate insieme con dello spago, a formare quello che era l’antenato dei nostri quaderni.
Tuttavia il punto di forza di questo strumento era la riciclabilità: infatti, ogni volta che il contenuto della tavola non era più utile, come, magari, la lista di una spesa già effettuata, o una sequenza di operazioni matematiche già risolte, bastava rimuovere, dalla parte centrale della tavoletta, la vecchia superficie, ormai scalfita, e stendervi un altro strato di cera levigata, oppure tornare a levigare lo strato di cerata già esistente.

Il nome latino di questo antico mezzo di scrittura era "tabula cerata", che in italiano significa "tavola cerata".
Sicuramente, giunti a questo punto del discorso, l’intuizione avrà già portato il lettore più perspicace a capire come le operazioni compiute dagli antichi greci e romani, sono le stesse che oggi, grazie all’ausilio della tecnologia siamo in grado di compiere su un tablet. Infatti, l’affinità funzionale dei due mezzi (tabula e tablet) è sottolineata anche dalla somiglianza morfologica delle parole adoperate per indicarli: del resto, in entrambi i termini, sia quello inglese che quello latino, è riconoscibile la comune radice tab-. Mentre la parola adoperata dai Romani, però, indicava il supporto piatto, cerato sopra il quale si effettuavano, come accennato in precedenza, una serie di operazioni, il termine anglosassone indica un oggetto che, per forma e capacità di riutilizzo, conserva le stesse caratteristiche dell’antenato ligneo, ma, per funzionalità e praticità, gli è davanti di ben due millenni.
La tavoletta, che chiamiamo tablet (termine inglese derivante dal latino tabula), grazie al sostegno dell’informatica e della tecnologia, consente all’utente di svolgere molte operazioni in più rispetto a quelle che erano le possibilità offerte dalla tabula. Inoltre, grazie alla propria memoria artificiale, questo strumento è capace non solo di memorizzare i nostri impegni, ma, qualora ci si dimenticasse di consultarlo quotidianamente per rendersi conto del da farsi, emettendo un suono acustico, è anche in grado di richiamare alla mente dello smemorato gli appuntamenti registrati in precedenza.
È possibile ancora scattare foto, registrare file audio o video, accedere alla rete internet e condividere il proprio contenuto multimediale; è possibile leggere giornali, accedere alla propria casella di posta elettronica, ecc.
Insomma, si tratta, a tutti gli effetti, di un vero e proprio mini computer.

Restano, però, ancora un paio di considerazioni da fare.
Di fronte all’intelligenza di tali mezzi sembra che la memoria umana, sottoposta a continui stimoli audio-visivi invece di progredire, stia retrocedendo: infatti, quando si archiviano delle parole, delle immagini, dei suoni e persino degli impegni un una mente elettronica, non lo si fa per ricordare, ma per dimenticare, sicuri che, al momento opportuno, sarà sempre possibile ricordarsi delle proprie emozioni, dei propri incarichi e delle proprie responsabilità accedendo tranquillamente a un deposito virtuale.
È vero, ascoltare e guardare i componenti di un archivio multimediale, sopratutto se personale, può richiamare alla mente e all’animo emozioni e sensazioni vissute in precedenza e poi registrate digitalmente.
Ma se il nostro dispositivo elettronico di memorizzazione si rompesse? Perderemmo anche le nostre emozioni, i nostri pensieri e le nostre esperienze di vita? Oppure, affidandoci solo alla nostra memoria e capacità rievocativa, potremmo essere ancora in grado di richiamare alla mente i ricordi più belli ed emozionanti?
Inoltre, come si può facilmente notare in un museo, le tabulae dei latini, seppur mezzi rudimentali, si sono conservate per più di duemila anni, portando con sé informazioni conservate sottoforma di incisioni. La memoria di un uomo resiste, per ovvie ragioni fisiologiche, sicuramente molto meno di duemila anni, ma può conservare i ricordi di una vita intera per tutto l’arco della sua durata, in media 70 anni circa.
Qual’è invece l’attuale aspettativa di vita di un dispositivo elettronico, e quindi, delle informazioni-ricordi in esso contenute?



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