“Gli uomini che pensano profondamente appaiono a se stessi commedianti nei rapporti con gli altri perché allora, per essere capiti, devono sempre simulare una superficie”(1).
Nietzsche coglie bene questa anomalia del pensiero riflessivo, essendo egli stesso uomo solitario. Nelle nature introverse si creano le condizioni per cui, cogliendo i vincoli esterni, si privilegia una prospettiva interna, come unica discriminante della realtà. In “Tipi psicologici” Jung descrive lo iato tra realtà interna ed esterna del soggetto introverso, alla ricerca costante di un’immagine che non ritrova nella realtà: “Esso aspira a una intensità interiore alla quale gli oggetti apportano tutt’al più un incentivo. La profondità di questa forma di sentimento può essere solo intravista vagamente. Essa rende gli uomini silenziosi e difficilmente accessibili, giacché di fronte alla brutalità dell’oggetto si ritrae in modo ipersensibile”.(2) Un vuoto incolmabile tra quello che sentono di essere e quello che sono realmente. Il protagonista di Memorie del sottosuolo è un personaggio che non si definisce in base ad eventi esterni ma un uomo del “sottosuolo”. Un uomo che ci racconta di se stesso in una dimensione privatissima e che sospende qualunque esperienza fenomenica. Dostoevskij descrive il sottosuolo come metafora dell’inconscio, una autoanalisi continuata fino al paradossale in cui il ritorno alla realtà è impossibile; ogni conferma esterna è una dimostrazione veritiera di convinzioni e paure interne. Il sottosuolo è un mondo oscuro e fantasmagorico, di difficile interpretazione, una dimensione in cui ci si addentra con smarrimento del lettore. Jung sostiene che la coscienza si volge verso l’individuo e vi scopre zone selvagge d’oscurità la cui vista si vorrebbe evitare. E Dostoevskij inizia esordendo: Sono un uomo malato… sono un uomo cattivo, quasi ad indicare che, colui che si ripiega su se stesso e osserva e analizza le zone selvagge dell’inconscio, è già malato. Continuando:”sono fermamente convinto che non solo un eccesso di coscienza, ma perfino qualunque coscienza sia una malattia”.(3) Nella tradizione cristiana la coscienza è una voce interiore, una qualità umana che indica cos’è giusto e cos’è sbagliato, la coscienza discerne il male e il bene. Nella Genesi è chiaro che la coscienza è un dono di Dio fatto all’uomo al momento della creazione. Nella tradizione filosofica anche M.Heidegger in Essere e Tempo descrive la coscienza come una voce interna dell’uomo che aiuta a discernere le azioni intenzionali della persona, capace di farlo uscire dal “si”sociale e spersonalizzato (si dice, si fa…) rigettandolo in una consapevole dimensione di essere-per-la-morte; una realtà autentica del nostro senso esistenziale che rivela l’assoluta unicità ma precarietà dell’essere umano. Il sentimento di angoscia, accompagnato al risvegliarsi della coscienza, rappresenta l’unica alternativa alla vita in- autentica del semplice “essere assieme”. Il sentimento di angoscia dell’uomo heideggeriano non è la sfera emotiva descritta in Memorie del sottosuolo: Del sofferto godimento del proprio degrado morale, dell’odio e dello stesso bisogno disperato di qualcuno. Dostoevskij stravolge un concetto storicamente precostituito per illuminarlo di una luce rivoluzionaria, mostrando che ciò che è un valore in realtà è solo una delle tante sfaccettature della persona umana, un’altra fissazione, una paranoia, una malattia. Questo è il fatto in carne e ossa, nuda realtà: siamo ciò che siamo e nient’altro che questo. Non si può uscire da se stessi, si è malati, irrazionali e prigionieri dei nostri fantasmi interiori. Una profonda vita interiore è causa di sofferenza e più si è immersi in se stessi e più sembra che si perda la capacità di adeguarsi alle richieste del mondo esterno. La comunicazione diventa importantissima proprio perché è impossibile realizzarla. L’uomo del sottosuolo non riesce ad entrare in contatto con i suoi simili. Eppure preme il bisogno di un confronto, di un rapporto autentico, di venire allo scoperto e di dare sfogo alle immagini che schiacciano nel fondo dell’anima. Il fallimento di qualunque dialogo lo obbliga a confrontarsi con degli interlocutori immaginari che finalmente rispondono al suo bisogno. L’uomo dostoevskijano è la testimonianza della profonda solitudine cui è costretto chi si ritrova prigioniero del proprio mondo interiore, terrorizzato da coloro che lo abitano ma allo stesso tempo affascinato dalle ombre sinistre che si celano negli angoli sordidi della nostra anima.

Note
1 Nietszche, Umano troppo umano, pagg 93-94
2 Ibiden, pag. 392
3 Dostoevskij, parte prima in Memorie del sottosuolo

Fëdor Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, Einaudi