Il linguaggio verbale è uno strumento indispensabile per ognuno di noi: proviamo a pensare a tutti gli atti e le azioni che compiamo ogni giorno per far progredire la nostra vita, per realizzare i compiti che, ogni giorno, ci attendono. Se si escludono i comportamenti e le azioni più strettamente materiali (afferrare uno strumento, aprire un barattolo, prendere una sedia per sedervisi sopra) è evidente come il linguaggio influenzi e condizioni ogni aspetto della nostra vita: lo usiamo per leggere, per parlare, per ragionare, per scrivere. Sarebbe impossibile pensare la vita dell'uomo moderno priva del linguaggio, così come sarebbe impossibile pensare che l'uomo avrebbe sviluppato uno stile di vita e una società così complessi come quelli odierni senza avvalersi dell'uso di questo straordinario strumento.
Ray Jackendoff, citato da Cristina Cacciari in Psicologia del Linguaggio (2001), sostiene che:

Il linguaggio ci aiuta a pensare […] per almeno tre ragioni: intanto perché ci permette di rendere consapevoli elementi astratti e relazionali del pensiero (per esempio, inferenze, situazioni ipotetiche, ragionamenti controfattuali) in quanto unità separate tra loro. Divenendo coscienti, tali elementi sono a disposizione dei processi attentivi che possono ridefinirli, arricchirli e anche renderli più concreti ancorandoli a una base percettiva. Infine il linguaggio permette di recuperare dalla memoria e valutare non solo i contenuti astratti di pensiero ma anche le nostre esperienze percettive e di sottoporli a scrutinio attraverso attività di metaragionamento impensabili in organismi privi di linguaggio.

Per Jackendoff dunque il linguaggio è quella facoltà che ci consente di compiere azioni tali da distinguerci, esse si, da altri organismi privi di questa facoltà. Anche Noam Chomsky e altri studiosi sia di linguistica che di psicologia si sono espressi su questo argomento e, pur con sfumature differenti, sembrano tutti voler confermare questo punto di vista. Ma quali sono i meccanismi e le modalità che presiedono all'apprendimento e all'esercizio di questa facoltà? Di questo tema si occupa, per l'appunto, la psicologia del linguaggio che, come disciplina, si dedica allo studio delle modalità psicologiche e neurologiche che presiedono al funzionamento del linguaggio e al suo utilizzo da parte della specie umana. Parlando di linguaggio bisogna inoltre tenere distinti due concetti: il linguaggio in senso astratto, inteso come facoltà di comunicare attraverso le parole, e le lingue naturali vere e proprie attraverso cui questa facoltà si esplica e trova espressione concreta, “visibile”, materiale. Le lingue naturali, sviluppatesi nel corso dei millenni, si trasmettono tutte di generazione in generazione attraverso la fase che, dagli antropologi, è chiamata di inculturazione. Non solo. Una lingua infatti non puoi mai dirsi appresa per intero e in maniera definitiva: ognuno di noi continua, per tutto l'arco della propria vita, ad arricchire il proprio lessico e le proprie capacità linguistiche affinandole e sviluppandole. Quando questo non avviene ecco che lì si pone un problema. Se il linguaggio infatti, com'è facile intuire, è indispensabile per lo stabilirsi e il mantenersi delle relazioni umane, nonché per la riflessione individuale e la costruzione consapevole di una propria idea di sé e del mondo, com'è possibile che chi queste capacità non le possiede possa realizzarsi come individuo e vivere felicemente in mezzo agli altri? Abbiamo infatti detto che il linguaggio è indispensabile per ragionare e per divenire coscienti dei propri contenuti psichici, sia che si tratti di pensieri astratti e razionali, sia che si tratti di contenuti emotivi (sentimenti, emozioni). Inoltre, com'è noto, il linguaggio verbale è indispensabile per la comunicazione umana, quella pratica che permette e consente a tutti noi la costruzione e il mantenimento di efficaci e proficue relazioni interpersonali. Ma nel momento in cui un individuo non ha modo di sviluppare le proprie capacità linguistiche e di ragionamento, nonché le proprie capacità relazionali legate all'uso del linguaggio, egli si trova limitato, rispetto agli altri individui, in tutte quelle funzioni che al linguaggio sono legate: comprensione di sé, comunicazione e verbalizzazione dei propri contenuti, intrattenimento di rapporti sociali sereni e armoniosi. Se la felicità, com'è stata da taluni definita, è una felicità di tipo relazionale, come può un individuo siffatto costruirsi un'esistenza felice e stimolante, e, a sua volta, trasmettere tali qualità e tali capacità ai propri discendenti?

Vi è inoltre un altro aspetto da considerare parlando del linguaggio e delle capacità linguistiche dell’individuo. Dal punto di vista antropologico infatti il linguaggio può essere considerato sotto due aspetti: esso è sia uno dei canali privilegiati di trasmissione della cultura, sia un elemento, ovvero un sottoinsieme, della cultura stessa. Serve quindi sia a trasmettere la cultura, attraverso i contenuti che esso veicola, e si pone esso stesso come elemento della cultura trasmessa intesa come insieme di strumenti e nozioni che una data comunità o società di appartenenza mette a disposizione dei propri membri per interpretare il mondo e vivere la propria vita. Un essere umano con competenze linguistiche limitate (scarso vocabolario, difficoltà nella comprensione di periodi o testi complessi, solo per fare alcuni esempi) ha tendenzialmente un atteggiamento maggiormente incline alla passività nei confronti della propria cultura e della società in cui si trova inserito, mentre un individuo con migliori capacità linguistiche e intellettuali ha più probabilità di pensare e comportarsi in modo emancipato e indipendente rispetto alla cultura di provenienza, proprio in virtù di quelle facoltà di metaragionamento e di pensiero che egli può esercitare su quanto gli viene proposto come vero/falso o giusto/sbagliato dalla comunità di origine. Un membro del primo tipo è più incline alla conservazione passiva della propria cultura, che egli reitera, replica e trasmette senza mai averla, o avendolo fatto raramente, messa in discussione. Un membro del secondo tipo è invece più suscettibile di contribuire attivamente allo sviluppo e all'avanzamento della cultura cui appartiene arricchendola con le proprie proposte e coi risultati delle proprie riflessioni.

Oltre a questi aspetti, un po' astratti forse, legati all'uso del linguaggio, anche nelle relazioni personali e affettive c'è una certa differenza tra chi sa usare i propri strumenti verbali e chi invece si trova a disporre, da questo punto di vista, di un bagaglio di risorse più limitato. Se saper parlare con sé stessi può mettere in grado di conoscersi meglio e, quindi, di saper riconoscere e gestire i propri contenuti psichici, è lecito dedurne che questo comporti, per l'individuo, maggiori capacità empatiche e di comprensione (emotiva, sentimentale, razionale) nei confronti dei propri simili, oltre a permettergli di comunicare e trasmettere con maggiore efficacia e chiarezza i propri sentimenti e le proprie emozioni, contribuendo quindi a costruire relazioni interpersonali solide, veritiere e armoniose. Anche dal punto di vista relazionale dunque il linguaggio gioca un ruolo fondamentale, e se tutti questi ingredienti (comprensione di sé, relativizzazione della propria cultura, relazioni interpersonali) sono ingredienti indispensabili anche se non sufficienti per la realizzazione della propria felicità, risulta chiaro come limitare l'accesso alle risorse linguistiche, e ai contenuti ad esse correlati, ad una parte della popolazione o della comunità, significhi impedire od ostacolare per quel particolare sottogruppo il raggiungimento della propria felicità e la propria realizzazione come esseri umani, venendo meno al principio di condivisione del sapere e delle risorse che dovrebbe essere alla base di ogni società umana realmente democratica.

Se a questo aggiungiamo poi che, per il raggiungimento di traguardi importanti in ambito lavorativo e professionale le capacità linguistiche sono, ancora una volta, fortemente determinanti (linguaggi settoriali, competenze di registro linguistico) il quadro è completo: un individuo, senza le adeguate capacità linguistiche e comunicative, avrà maggiori difficoltà rispetto a un altro che tali competenze le possiede a realizzarsi in ambito lavorativo e accedere quindi a quelle risorse economiche e materiali che, insieme alle relazioni umane, sono ingredienti indispensabili, anche se non sufficienti, al raggiungimento di una condizione esistenziale che si possa dire di felicità(1).

Quali conclusioni trarre, dunque, da questi ragionamenti e dalle considerazioni fatte? La prima è che sicuramente il linguaggio gioca un ruolo fondamentale nella vita delle persone, e corollario di questo fatto è che tale elemento, il linguaggio appunto, dovrebbe essere tenuto in considerazione anche nei casi di terapia psicologica o psicoanalitica. In molti casi infatti il soggetto/paziente non può venir fuori autonomamente dalle proprie ingarbugliate situazioni sentimentali, intellettuali od emotive anche perché non possiede le risorse linguistiche necessarie a comprendere e dominare i propri contenuti psichici, anziché esserne succube. Secondariamente, si pone un problema di democrazia del linguaggio, o sul linguaggio: si può dire democratico un paese, una comunità, una nazione, che non consenta a tutti, indipendentemente dalle proprie condizioni economiche, dal credo politico o religioso, o dalla propria appartenenza etnica, di accedere con pari opportunità alle proprie risorse e conoscenze linguistiche, culturali e concettuali, ostacolando quindi la realizzazione della felicità individuale e relazionale degli individui? Secondo me no, e credo che la risposta sia abbastanza ovvia nelle sue motivazioni, visti i ragionamenti sin qui fatti. Resta da vedere se queste considerazioni possono essere ritenute valide per far si che la felicità e la realizzazione personale entrino a far parte del dibattito accademico e scientifico, come in parte già è, oltre che di quello politico e sociale, in un approccio che non sia quello di limitare e circoscrivere la condivisione del sapere alle cerchie ristrette degli addetti ai lavori, ma, al contrario, di offrire alla società civile i risultati delle proprie scoperte e delle proprie considerazioni, in un’ottica unitaria e unificante dei diversi saperi elaborati dalle discipline che, riguardo all'essere umano, cercano di scoprirne la natura e di svelarne gli aspetti più reconditi.



Note:
1. Vedi Melania Verde in La teoria relazionale della felicità, pubblicato nel canale Sociologia di questo stesso sito.


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