In questo saggio Antonin Artaud, personaggio controverso del Novecento, andando oltre l’indagine artistica sull’opera di Van Gogh, riflette sul ruolo degli outsiders e sulle dinamiche sociali che lo costituiscono, cercando una sorta di identificazione con l’uomo Van Gogh.

Un uomo che è stato “corporalmente il campo di un problema attorno al quale, fin dalle origini, si dibatte lo spirito iniquo di questa umanità. Quello del predominio della carne sullo spirito, o del corpo sulla carne, o dello spirito sull’uno e sull’altra. E dov’è in questo delirio il posto dell’io umano? Van Gogh cercò il suo per tutta la vita con energia e con una determinazione strane, e non si è suicidato in un impeto di pazzia, nel panico di non farcela, ma invece ce l’aveva appena fatta e aveva scoperto cos’era e chi era, quando la coscienza generale della società, per punirlo di essersi strappato ad essa, lo suicidò. E questo avvenne per Van Gogh come avviene sempre di solito, in occasione di un’orgia, di una messa, di un’assoluzione, o di qualche altro rito di consacrazione, d’invasamento, di succubazione o d’incubazione. Si introdusse dunque nel suo corpo, questa società assolta, consacrata, santificata e invasata, cancellò in lui la coscienza soprannaturale che egli aveva appena assunto, e, come un’inondazione di corvi neri nelle fibre del suo albero interno, lo sommerse con un ultimo sobbalzo, e, prendendo il suo posto, lo uccise” (1).

Questo ritratto può nascere solo da un Artaud che si riscopre in Van Gogh, in quanto altro della società, in quanto è stato scaraventato nei meandri della follia dalle stesse cure psichiatriche, come da un principio di normalizzazione, o se si vuole, più precisamente, da un principio di identificazione che relega e o distrugge ciò che non vi si può attenere.

All’interno della società manca dunque la possibilità di comunicare, di avere un dialogo. Sintomatico di ciò è il confronto che si può tracciare tra la morte suicida di Van Gogh per mano della società, secondo questo saggio di Artaud, e la morte, anch’essa suicida, della tragedia greca per mano di Euripide, di cui parla Friedrich Nietzsche ne La nascita della tragedia. In entrambi i casi il suicidio è solo maschera di un vero e proprio omicidio. Nietzsche vuole dimostrare come l’atto di autonegazione della tragedia scaturisca dalla ratio socratica, che ha in un certo senso ‘invasato’, per usare una terminologia artaudiana, il tragediografo Euripide, facendogli cacciare Dioniso dalla scena tragica.

Euripide, racconta Nietzsche ne La nascita della tragedia, avvertiva nelle manifestazioni di Dioniso “qualcosa di incommensurabile”, capace di avvolgere con una “luce crepuscolare” tutta la struttura del dramma, in modo tale da accennare ad un baratro, necessario ed insostenibile. Ma continua ancora Nietzsche:

“Euripide era in un certo senso solo maschera”, in quanto una potenza demoniaca parlava attraverso la sua bocca, tale potenza era quella socratica, che assolutizzando l’intelletto, e quindi l’esigenza di chiarezza, di riempimento nascondimento di ogni baratro, distruggeva dal suo interno la presenza dionisiaca nella tragedia, decretando così la fine della tragedia stessa. Artaud, nel saggio su Van Gogh, sembra, per alcuni versi, ripercorrere questo movimento nietzschiano. La pittura di Van Gogh crea infatti uno spaesamento analogo a quello del dionisiaco: “cardati dal chiodo di Van Gogh, i paesaggi mostrano la loro carne ostile, la rabbia dei loro recessi sventrati, che una qualche strana forza sta d’altronde metamorfosando”(2).

È dunque una pittura crudele, e la forza che erompe da essa, e “di cui tutti parlano per mezze frasi”, si richiude saldamente su se stessa ogniqualvolta si cerchi di delucidarla, di metterla a fuoco. Ancora una volta ciò che non può essere capito, analizzato, destabilizza ed impone alla coscienza invasata, generale della società una subdola reazione, che consiste nell’uniformare l’elemento spaesante insidiandosi in esso, al fine di condurlo all’autodistruzione. Si noti che in Artaud il soggetto che spinge al suicidio Van Gogh diviene la società nel suo insieme e non più un solo individuo come invece accade in Nietzsche per la morte della tragedia, “perché la logica anatomica dell’uomo moderno è proprio di non aver mai potuto vivere, né pensare di vivere, che da invasato”. Si deve aprire una parentesi anche sul fatto che in entrambi i casi lo scivolamento verso la morte è accompagnato da un progressivo impoverimento dialogico. Nella tragedia con Euripide si passa dalla centralità dello scambio tra il coro ed i personaggi ad un’assolutizzazione del dialogo, prevalentemente in direzione della retorica, relativa ai soli personaggi. Si tende ad escludere il coro in nome di una comprensione narrativa più immediata, che permette di esaltare il potere del logos. Anche nella dinamica del saggio su Van Gogh emerge un progressivo impoverimento dialogico, che culmina nell’affermazione che se anche Van Gogh non fosse morto, dopo un’opera come I corvi egli non avrebbe più dipinto un solo quadro. Questo perché lo strangolamento-suicida operato dalla società non mira all’eliminazione dell’uomo Van Gogh, ma alla riduzione a silenzio della sua arte, che è pensiero vivo, terribilmente sensibile, pensiero di un outsider.


(1) Antonin Artaud, Van Gogh, le suicidé de la societé, Éditions Gallimard, Paris 1974; trad. it. con la collaborazione di C. Dumoulié, Van Gogh, il suicidato della società, Adelphi, Milano 1988. pp.20-21.
(2) Antonin Artaud, Van Gogh, il suicidato della società, p.25.


Antonin Artaud, Van Gogh, Il suicidato della società (1946) - A cura di Paule Thévenin, traduzione di Camille Dumoulié, Ena Marchi, Jean-Paul Manganaro, Biblioteca Adelphi 1988, 7ª ediz.