Come descrivere lo stato di perfetta salute psicosomatica? Solo come assenza di turbamento o caratterizzandolo attraverso dei tratti aggiuntivi specifici? Perché l’uomo moderno lo pone come problema e lo indaga attraverso l’arte e la filosofia oltre che la psicologia?

Antonin Artaud e Friedrich Nietzsche, personalità artistiche e filosofiche tout court alle radici della cultura del Novecento, considerano lo stato di salute un valore, un diritto che deve essere conquistato passando attraverso gli stadi della malattia, del dolore, che soli consentono la conoscenza profonda e completa dell’Io. Lo stato di equilibrio, di salute è tuttavia difficile da raggiungere, soprattutto nella modernità, in cui vige una sorta di “fraintendimento del corpo”, significativa in proposito è la definizione di malattia che Nietzsche abbozza nella prefazione al secondo volume di Umano, troppo umano: “La malattia è ogni volta la risposta, quando vogliamo dubitare del nostro diritto al nostro compito; quando, in un punto qualsiasi, cominciamo a farci le cose troppo facili”. Nietzsche abbozza un rapporto ambiguo tra malattia e filosofia.

Da un lato la malattia è responsabile di quelle filosofie capaci solo di allontanarsi dalla dimensione umana e obliarla, è cioè responsabile della filosofia come palliativo, fuga, nascondimento del dolore e, in questo caso, il pensiero coincide con la malattia. Dall’altro la malattia e i suoi stadi, assieme al dolore, sono le tappe necessarie per intraprendere un percorso di liberazione verso una salute traboccante, dionisiaca, che consenta l’avvento di una filosofia affine alla vita, una filosofia non più dogmatica, non più distante e contraria alla forza vitale. Da queste breve battute emerge che la salute è il coronamento di una percorso di crescita, di riscoperta del sé, il cui raggiungimento non dipende dalla scarsità dei sistemi filosofici, bensì da un rinnovato approccio, non mediato da essi, alla vita. Ciò che lamenta anche e soprattutto Artaud è la distanza tra pensiero e vita, distanza su cui si radica la malattia: “È un mostro, in cui si è sviluppata sino all’assurdo la facoltà di trarre pensieri dai nostri atti, anziché quella di identificare gli atti con i pensieri”. Assistiamo così ad un pensiero in lotta con se stesso, in lotta con la propria natura, ad un pensiero che vuole sgretolarsi.

La malattia, o più precisamente la “follia”, è legata a filo doppio non solo con l’attività pensante, ma anche con quella creatrice, secondo la famosa triade che Deleuze vorrebbe eliminare dall’immaginario collettivo (1). Questa triade è formata dall’artista, dal folle e dal bambino; ne possiamo trovare inoltre esplicite suggestioni negli studi di Freud, in particolare nel breve e denso saggio Il poeta e la fantasia del 1907. Qui Freud, da profano, cerca di indagare sull’attività creatrice, sulla sua possibilità, e sulla sua formazione. Data però l’impossibilità di una presa diretta e sicura sull’argomento sceglie di accostarsi ad esso attraverso un’indagine mirata ad attività affini a quelle artistiche. Queste attività affini sono innanzitutto il gioco del bambino e poi il suo proseguimento, la sua trasformazione nel fantasticare adulto. Entrambe permettono di cogliere il saldo legame che intercorre tra esse e la sfera del desiderio, e di portarlo alla luce nell’operare artistico.

Proprio questo stretto connubio con il desiderio, con la libido, e il conseguente contrasto con il principio di realtà, può costituire il piano di passaggio e di fusione tra l’attività creatrice e la follia. L’analogia tra tali campi è data perciò dalla “concezione puramente dinamica di questi processi psichici”, dalla dinamica delle energie in questione. Ciò che li fa invece differire, che salvaguardia la loro divisione in ambiti disgiunti, così come preserva il confine tra normalità e malattia, è “il punto di vista economico” del problema, ovvero la diversa quantità delle energie che entrano in gioco. Sulla scia della prospettiva freudiana troviamo la ricerca di Lyotard, in particolare il suo Discours, figure (2) del 1971, in cui viene individuata la probabile “matrice fantasmatica” dell’esperienza creatrice. L’esperienza artistica rapportandosi tanto all’imitazione, quanto all’invenzione, può trovare la sua origine nell’universo onirico, in un desiderio proteiforme, in un’energia libidinale accessibile solo attraverso un’esperienza extra-discorsiva, che elude la peculiarità logica del pensiero. Tale esperienza illustra un incontro/scontro, più o meno violento, tra sensazioni evidenziandone anche il legame temporale.

A queste suggestioni di stampo freudiano sarebbe interessante poter affiancare gli studi di Jean Dubuffet, che si è occupato della teorizzazione artistica a partire dal conflitto tra le arti “culturali” e quelle “brute”, tra le manifestazioni artistiche riconosciute e apprezzate dalla cultura occidentale e quelle escluse da questa cultura in quanto rozze, primitive, goffe, in una parola altre.


Note:
(1) “Un grande poeta può scrivere in rapporto diretto con quel bambino che egli è stato e con i bambini che ama; un folle può trascinare con sé l’opera poetica più immensa in rapporto diretto con quel poeta che egli fu e che non cessa di essere. Ciò non giustifica affatto la grottesca trinità del bambino, del poeta, del folle” – Gilles Deleuze, Sullo schizofrenico e sulla bambina, in Logica del senso, p.79.
(2) L’opera di Lyotard, Discorso, figura, è stata tradotta in italiano da E. Franzini e F. Mariani Zini, per Unicopoli, Milano 1988, con una presentazione di D. Formaggio.