Tra i problemi economici e sociali che più hanno interessato gli studiosi in questi ultimi decenni vi è sicuramente la disoccupazione. Il mercato del lavoro degli ultimi dieci anni ha subito delle profonde modificazioni, tra cui il calo del tasso di attività, la tendenza inesorabile verso la flessibilità occupazionale e la diffusione capillare di modalità contrattuali atipiche, come i contratti a tempo determinato, occasionale, a tempo parziale. Un aspetto rilevante consiste nella diffusione trasversale e pressoché indiscriminata del fenomeno della disoccupazione e il conseguente coinvolgimento di fasce professionali molto ampie e diversificate tra loro, in possesso di esperienze, professionalità e livelli di competenze molteplici.

I disoccupati di oggi non appartengono solo alla classe operaia, ma sempre di più sono impiegati, tecnici, quadri e manager, in genere in possesso di un buon livello formativo, acquisito non solo attraverso la formazione di base, l’aggiornamento professionale in itinere, ma soprattutto l’esperienza lavorativa maturata negli anni. Ci sono inoltre i moltissimi giovani che non hanno mai avuto accesso al mondo del lavoro, in cerca quindi di una prima occupazione, in possesso di un diploma o di una laurea, disponibili ad accogliere contratti lavorativi flessibili, pur di iniziare ad avviare una qualche esperienza lavorativa. Parallelamente, cresce la quota di disoccupati che hanno perso il lavoro in un’età critica, tra i 40 e i 50 anni, in una fase della vita in cui è più difficile ricollocarsi professionalmente.

Il fenomeno della disoccupazione e della precarietà lavorativa è a tal punto diffuso che oggi si parla anche di soggetti “inattivi”, ossia individui non occupati o disoccupati, ma in età lavorativa: si tratta di lavoratori “scoraggiati” che avrebbero voluto lavorare, ma hanno rinunciato a cercare lavoro, dopo una lunga serie di insuccessi.
Certamente, l’identità professionale è una componente fondamentale dell’immagine di sé, dal momento che l’individuo tende a costruire una rappresentazione di sé anche sulla base dei ruoli sociali che riveste nel proprio contesto di appartenenza. Il tempo libero dei disoccupati è un “tragico dono”, in quanto la disoccupazione produce generalmente una destrutturazione nell’organizzazione del proprio tempo e una progressiva demotivazione nei confronti di nuove iniziative e occupazioni. Il disoccupato tende quindi ad abbandonarsi con inerzia a giornate vuote e sregolate, allentando parallelamente le relazioni sociali e i contatti interpersonali.
La formazione può essere una risposta alla disoccupazione, soprattutto perché la disoccupazione prolungata produce effetti di de-professionalizzazione e può sostenere processi di riabilitazione, riconversione professionale e addestramento al fine di affrontare le progressive carenze motivazionali e perdita di capacità tecniche del disoccupato.
Nei percorsi di formazione attuali sempre più spesso si incontrano gruppi molto eterogenei al proprio interno: giovani in possesso di diploma o laurea, o addirittura master e corsi di specializzazione, con un livello di istruzione quindi medio alto, ma spesso una scarsissima esperienza lavorativa che lamentano l’esito drammatico di gran parte dei colloqui che sostengono, quando viene segnalato loro che, aldilà del brillante curriculum formativo, manca l’esperienza; uomini e donne di mezz’età, appartenenti a svariate fasce sociali e categorie professionali, che affrontano per la prima volta una condizione di inattività (a causa di processi di fallimento aziendale, cassa integrazione, mobilità), espulsi inaspettatamente dalle realtà in cui lavoravano da decenni, disorientati di fronte alle nuove tecniche di ricerca attiva del lavoro e dalla frammentarietà di esperienze a cui espongono le nuove tipologie contrattuali, pressati dalle esigenze di bilancio economico familiare; soggetti immigrati che spesso sommano alla difficoltà di collocazione sociale e professionale, le carenze di comprensione linguistica e culturale.
La partecipazione ad un corso di formazione è soprattutto un tentativo di arricchire la propria professionalità, magari sperimentando ruoli sconosciuti o aspirazioni dimenticate, anziché farla deperire nell’attesa passiva di una ripresa economica. A questo proposito, una delle espressioni più adottate dai corsisti che si incontrano è il desiderio di “rimettersi in gioco”.

L’obiettivo di un corso di formazione per disoccupati dovrebbe essere non solo quello più evidente di sostenere la ricerca di una nuova occupazione, ma soprattutto di rafforzare le capacità pregresse, ampliare le abilità tecniche di cui si è carenti e che potrebbero interessare il mercato attuarle del lavoro. In termini tecnici questo processo si definisce il bilancio di competenze, attraverso cui, a partire da una valutazione del passato professionale del soggetto, lo si rende in grado di esplorare percorsi e ruoli non necessariamente correlati alla sua storia pregressa. È fondamentale trasmettere il concetto di trasferibilità degli apprendimenti, ossia la possibilità di utilizzare le competenze acquisite in altri settori e attività. Tuttavia, non bisogna dimenticare che l’obiettivo primario di un corso di formazione per disoccupati è probabilmente la ri-motivazione, ossia la capacità di rafforzare l’autostima del soggetto, già così duramente danneggiata da sentimenti di inutilità e dequalificazione sociale che la disoccupazione comporta.

Dal punto di vista più operativo, si possono suggerire i seguenti accorgimenti:

1. Valorizzare le abilità e le competenze pregresse: soprattutto quando si opera con soggetti lavorativamente maturi, che hanno alle spalle molti anni di esperienza professionale. Questi disoccupati hanno bisogno di percepire la propria esperienza pregressa comunque come utile e valida benché sia stata fallimentare. E’ fondamentale quindi ascoltare le loro storie, accogliere i loro suggerimenti e osservazioni, invitarli a raccontare episodi o situazioni che hanno affrontato e risolto nella loro esperienza precedente.

2. Privilegiare l’aspetto pragmatico della formazione: benché sia inevitabile nel corso della formazione fare riferimento ai modelli teorici di svariate discipline, è importante privilegiare l’aspetto pragmatico della formazione, mantenendo continuamente l’aggancio con gli aspetti più pratici ed operativi del profilo professionale o delle competenze che si va formando. Da questo punto di vista, sono generalmente funzionali e ben apprezzate le tecniche di simulazione e i role playing.

3. Tenere conto dell’eterogeneità dei componenti e dei loro percorsi: ogni partecipante è una risorsa significativa per il gruppo e la propria storia professionale e/o formativa è degna di essere ascoltata e socializzata all’interno del gruppo.

4. Considerare la dimensione temporale dell’evento formativo: i corsi sono generalmente intensi e di breve durata, per tanto il tempo trascorso in aula acquista un’elevata significatività.

5. Considerare l’aspetto relazionale del gruppo: i partecipanti sono essenzialmente un gruppo di apprendimento e, in quanto tale, protagonista delle classiche dinamiche relazionali di gruppo di cui occorre tener conto, in quanto capaci di influire sui processi di apprendimento. Si osserva generalmente una fase di iniziale diffidenza reciproca, in cui i partecipanti si esplorano vicendevolmente al fine di capire quale grado di fiducia possa essere trasmesso al gruppo; a volte si creano delle alleanze interne, si esplicitano sentimenti di appartenenza molto differenziati, nascono anche delle amicizie che durano aldilà del percorso formativo, e non è raro che il corso si concluda con un momento ludico di ritrovo collettivo.


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