Il numero di suicidi calcolato dall'inizio del 2012 ad oggi è di circa 36 imprenditori. E forse il numero è già salito dal momento in cui questo articolo è stato scritto.
Da qualunque punto di vista lo si voglia guardare, qualsiasi significato gli si voglia dare, il suicidio non può essere considerato come qualcosa che riguarda solo la persona che lo commette. Esso è un fatto sociale, è la manifestazione più diretta, cruda, e purtroppo irreversibile, di una considerazione esistenziale che opprime la libertà, che lascia la persona sola, che spezza la dignità dell'uomo, al punto da far prevalere un atto così estremo, che toglie via la vita, ciò che ha creato tutto quello che abbiamo.

Il sistema della società, l'educazione civica, il sistema economico, il sistema del Welfare con i suoi simboli rappresentativi ed i suoi rappresentanti: questo è ciò che l'uomo ha creato, e lo ha fatto per vivere bene, per dare a tutti un benessere, per vivere in modo pacifico e sereno, per vivere con civiltà. Se dunque si verificano dei suicidi, in un lasso di tempo così breve, con un numero così alto, la responsabilità deve essere assunta da tutta la comunità, a tutti i livelli, questo è un fallimento del sistema di vita nel suo complesso, e dunque sarebbe opportuno e necessario un esame delle dinamiche micro-macro del sistema sociale, in tutti i suoi livelli, in ciascuna delle sue sub-strutture.

In quale categoria li inserirebbe Emile Durkheim, sociologo studioso del fenomeno del suicidio? Suicidio anomico, forse. Certo è che la sua definizione di “fatto sociale” è senz'altro adeguata.
La causa generatrice di questo gesto può essere considerata come la conseguenza, o forse la risposta, l'unica risposta, che una personalità fragile, magari colpita da un susseguirsi di scelte sbagliate o di ripetute esperienze negative è riuscita a mettere in atto. Ma se osserviamo l'insieme di queste tristi morti come un fenomeno collettivo ci rendiamo conto di quanto la causa possa essere esterna alla personalità di chi l'ha realizzato, di quanto questa causa sia fuori degli individui.

Si potrebbe anche ipotizzare una sorta di “psicosi collettiva” accentuata, messa in evidenza (e dunque enfatizzata) dai mass media nella società mediale di cui siamo parte. Un'influenza negativa di questo fenomeno, causata dalla disperazione e dal non sapere come reagire: il sentirsi con le spalle al muro può portare l'essere umano a non riuscire ad utilizzare le sue capacità di ragionamento, la sua intelligenza superiore che lo distingue dall'essere animale, un “cortocircuito della mente”, che sovrasta l'intelletto umano; e sono allora l'istinto e l'emotività a sopraffare il raziocinio, sono i sensi a prendere il sopravvento. L'emotività, che però non sa neanch'essa cosa fare, dove trovare la via d'uscita. E allora quest'ultima si affaccia fuori, guarda oltre se stessi, cerca soluzioni altrove, cerca fra i propri simili, tra coloro che si trovano nella medesima situazione. Ed è qui che si incaglia nella risposta più forte, più estrema, più disperata.

Gustave Le Bon, etnologo e psicologo, definirebbe questo comportamento con la sua teoria della psicologia delle folle dove l'uomo, prevalso dalla forza della massa, mette in azione il suo corpo seguendo la folla, senza comprendere bene ciò che sta per fare, “spegne” la parte di cervello dove sono custodite le capacità dell'intelletto superiori, il raziocinio, lasciando libere le emozioni più cruente, più forti e pericolose.
Nel secondo girone del VII cerchio dell'Inferno Dante Alighieri collocava i suicidi che, tormentati dalle Arpie, venivano trasformati in alberi, sui quali rami appendevano il proprio corpo, e così come sono stati privi di emozione da vivi così sarà priva di sofferenza la loro l'eternità.

La scelta di suicidarsi non passa solo attraverso un gesto inconsueto, ma può avvenire anche attraverso altre modalità. Si può scegliere di morire anche lentamente, attraverso maniere che apparentemente possono sembrare addirittura un piacere, come l'uso di sostanze stupefacenti, che danno l'oblio nel breve tempo, ma che a lungo andare costituiscono una prigione , una dipendenza dalla quale spesso non si riesce ad uscire, ma dalla quale a volte non si vuole uscire, perchè non si è riusciti a trovare un senso alla propria vita, non si è riusciti a dare ad essa uno scopo, o non si è riusciti ad essere abbastanza forti per superare le difficoltà che si sono incontrate lungo il cammino.

La vita è ciò che sta alla base. Di tutto. È dal suo valore che nascono tutti gli altri. Ma se perdiamo il significato di essa, allora cosa resta? A cosa servirà più tutto ciò che abbiamo creato per viverla, la vita?