Homo homini lupus, l'uomo è come un lupo per l'uomo, sostenevano i latini, volendo assimilare l'aggressività umana a quella della belva selvaggia. Duemila anni di 'civiltà' non sono bastati per cancellare questa massima dal cuore dell'uomo occidentale, che continua a non poter fare a meno della sua parte aggressiva. Fin da piccolo. Indiani e cowboys, guardie e ladri, i giochi dei bambini, sono da sempre intrisi del fascino magnetico della contrapposizione, dell'aggressività, della violenza. Finchè l'aggressività viene limitata e sublimata nell'ambito del gioco, con regole condivise e accettate da entrambi gli “schieramenti”, la preoccupazione di mamme e papà si limita a curare lividi e ferite, portate con orgoglio dal piccolo combattente. Quando però l'aggressività non è più un gioco divertente nel quale misurare la propria fisicità, scaricando l'irruenza e la rabbia che inevitabilmente i bambini accumulano, ma diventa bullismo, l'apprensione è di tutt'altro genere e le ferite, fisiche ed emotive, rischiano di non cicatrizzarsi altrettanto facilmente, ma al contrario, suppurare anche dopo molto tempo.
Il fenomeno, per nulla nuovo e purtroppo per nulla “fuori moda”, continua a preoccupare genitori, educatori, psicologi: un bambino diventa carnefice di una o più vittime designate, spesso con un gruppo di sostenitori alle spalle che incoraggia, addirittura a volte immortala con uno scatto o un video da postare su Internet le bravate del compagno. E' l'ultima frontiera del bullismo e da bravi creatori di neologismi l'abbiamo già etichettato: cyberbullismo. Ma cosa si cela dietro queste dinamiche che portano un bambino a seviziarne un altro, a maltrattarlo, a fargli male, se non con i gesti almeno con le parole, le calunnie, le offese ripetute? Dividere il mondo in buoni e cattivi e ascrivere la vittima alla prima categoria e il carnefice con i sostenitori alla seconda porta veramente a poco; in realtà storie di bullismo sono sempre storie di sofferenza, per entrambi: dietro a un bambino problematico come il bullo c'è sempre un bambino che soffre. E dal perchè occorre partire per pensare ad interventi davvero efficaci, senza certamente dimenticare di intervenire per fermare la violenza. Sofferenza perchè? Perchè un bullo, innanzitutto è un bambino che non riesce ad empatizzare con il prossimo. Non riesce cioè a comprendere, a sentire dentro di sè che anche i propri compagni hanno sentimenti, emozioni, provano gioia, sofferenza, paura, rabbia, e che il proprio comportamento ha un impatto emotivo devastante sull'altro. La capacità di essere empatici è un'abilità che si sviluppa progressivamente, a partire dai primi giochi simbolici della scuola dell'infanzia: giocare alla mamma, al papà, alla maestra, indossare i vestiti di... fisicamente insegna ai bambini a indossare anche i panni emotivi dell'altro. Se questa capacità, che alla scuola primaria dovrebbe consolidarsi ed esprimersi in forma più matura, dal momento che il bambino lentamente emerge dal suo naturale egocentrismo, non si evidenzano, questo è sicuramente un segnale da prendere in considerazione. Un bambino che “non sente” è un bambino che ha congelato le proprie capacità emotive perchè è accaduto qualcosa nella sua vita la cui portata emotiva è stata troppo grande da sostenere e quindi ha messo in atto questo meccanismo di difesa per poter sopravvivere psichicamente. Non bisogna pensare però necessariamente a traumi di grande portata, come una guerra o un terremoto: un trauma per un bambino può essere anche “solo” un'ospedalizzazione propria o di un genitore, una difficoltà scolastica, la nascita di un fratellino, una crisi di coppia dei genitori... Allora questo significa che un trauma di questo tipo “crea” il bullo? No, certamente, ma sicuramente costituisce un terreno fertile su cui una fragilità personale sul versante aggressività e autostima possono essere ampliate e incentivate. Perchè il bullo, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, è un bambino con una stima di sé molto bassa. Che crede che nessuno lo ascolti se non grida, che nessuno lo consideri se non pesta i piedi, che nessuno lo veda se non picchia qualcuno. E' un bambino con una bassa tolleranza alle frustrazioni, che non riesce a gestire la propria aggressività. Spesso ha subito lui stesso violenze e colpisce perchè quello è il modello che ha interiorizzato: la violenza è il suo linguaggio, l'ha imparato dalla televisione, dall'ambiente che ha frequentato, non ne conosce altri e occorre insegnarglieli.
E la vittima? Anche la vittima ha delle caratteristiche ben precise e specifiche, perchè il bullo sa chi scovare. L'anello debole, come l'animale braccato dal predatore perchè non riesce a stare al passo con il gruppo, la vittima ha qualcosa che lo fa essere diverso dagli altri. Più fragile, più isolato, diverso, quindi più attaccabile. E l'episodio di bullismo avviene proprio dall'incontro di questi due personaggi che soffrono e che vanno aiutati ad uscire dalla spirale nella quale sono entrati.
Un problema multidimensionale, dunque, al quale occorre guardare dando risposte articolate e precise che tengano conto di tutti i fattori in gioco.