Melanie Klein nacque a Vienna il 30 marzo 1882, da una famiglia di tradizione ebraica. I genitori erano stati allevati come ebrei ortodossi, ma non erano praticanti. L’ambiente familiare era culturalmente vivace: il padre aveva intrapreso gli studi di medicina, e la madre ed il fratello erano appassionati di letteratura e di musica.
Il primo approccio della Klein con la psicoanalisi consistette nell’analisi su di lei condotta da Sandor Ferenczi a Budapest, dove si era trasferita col marito e i figli durante la prima guerra mondiale. Qui diventò una psicoanalista, e cominciò ad analizzare i bambini nel 1919. Nel 1921 si trasferì a Berlino dove studiò con Karl Abraham e venne da lui analizzata. Le idee di Abraham ebbero una grande influenza sull’impostazione delle teorie kleiniane.
Per quanto Abraham supportasse il suo lavoro pioneristico con i bambini, né la Klein né le sue idee ebbero successo a Berlino. Tuttavia, colpito dal suo lavoro innovativo, lo psicoanalista britannico Ernest Jones la invitò a Londra nel 1926, dove la Klein rimase e lavorò fino alla sua morte, il 22 settembre 1960.

Melanie Klein ha avuto una grande influenza sulla teoria e sulla tecnica della psicoanalisi, specialmente in Gran Bretagna. Come donna divorziata le cui qualifiche accademiche consistevano unicamente in un titolo da insegnante, la Klein rappresentò un evidente elemento di rottura all’interno del movimento psicoanalitico, allora dominato da medici maschi.
Dopo l’arrivo di Sigmund Freud e di sua figlia Anna a Londra nel 1938 le idee della Klein entrarono in conflitto con quelle degli psicoanalisti “continentali” che stavano immigrando in Gran Bretagna. In seguito al dilungarsi dei dibattiti tra i seguaci della Klein e quelli di Anna Freud negli anni quaranta, la Società Psicoanalitica Britannica si divise in tre sezioni separate per la formazione dei nuovi allievi: il gruppo kleiniano, quello annafreudiano, e quello degli indipendenti. Questa divisione persiste tuttora.

A parte i suoi successi professionali, la vita di Melanie Klein fu piena di eventi tragici. Nata da una gravidanza indesiderata, ultima di quattro figli, i suoi genitori le mostrarono scarso affetto. La sorella maggiore Sidonie, a cui era molto attaccata, morì quando la Klein aveva solo quattro anni, ed in seguito la Klein si sentì responsabile per la morte del fratello Emmanuel, avvenuta quando questi aveva 25 anni. I suoi studi accademici vennero interrotti dal matrimonio, a poco più di venti anni, con Arthur Klein, chimico industriale, e dalla nascita dei suoi bambini, Hans, Eric e Melitta. Il suo matrimonio fallì e suo figlio Hans morì, mentre la figlia, Melitta Schmideberg, anche lei divenuta psicoanalista, le fu apertamente ostile all’interno della Società Psicoanalitica Britannica. Madre e figlia non riuscirono mai a riconciliarsi, e, quando la Klein morì, Melitta non partecipò al suo funerale. La Klein soffrì di depressione clinica per tutta la vita.

Oggi, quella kleiniana è una delle scuole più prominenti all’interno della psicoanalisi. Gli psicoanalisti kleiniani fanno parte della Società Psicoanalitica Internazionale, e la psicoanalisi kleiniana ha incontrato un’ampia diffusione in Gran Bretagna e in gran parte dell’America Latina e dell’Europa continentale. Negli Stati Uniti, l’eredità della Klein è stata raccolta dal Psychoanalytic Center della California.
Figura dibattuta e osteggiata sia a livello personale che teorico, nondimeno la Klein viene oggi annoverata tra i fondatori della scuola delle relazioni oggettuali, e le sue teorie hanno influenzato e stimolato il pensiero di molti altri importanti analisti, tra cui Herbert Rosenfeld, Donald Meltzer, Hanna Segal, e Wilfred Bion.

Le posizioni kleiniane ed il complesso edipico
Melanie Klein teorizzò l’esistenza di due stati mentali, caratterizzati da particolari affetti, difese e modalità di relazione con l’oggetto, a cui diede il nome di posizione schizoparanoide e posizione depressiva.
La posizione schizoparanoide è la prima a comparire nella vita dell’uomo, nelle fasi precoci dello stadio orale, ed è caratterizzata dall’uso della scissione (schizo) e della proiezione (paranoide). Il soggetto percepisce gli oggetti in modo parziale, o completamente buono, o completamente cattivo, e lo stesso oggetto (ad esempio, il seno materno) viene percepito come due entità distinte (il seno materno buono e gratificante, ed il seno materno assente, cattivo e frustrante).
Anche l’Io viene scisso in parti buone e cattive. L’istinto di morte, ovvero l’aggressività, caratterizzante gli oggetti cattivi e l’Io cattivo, viene deflesso all’esterno, tramite la proiezione.
Ciò porta perciò a vedere il mondo esterno come popolato di oggetti cattivi, da cui difendersi. Da qui, la componente paranoide e l’ansia di persecuzione che caratterizzano questa posizione.
Da un punto di vista adattivo, la posizione schizoparanoide permette al soggetto di categorizzare ed ordinare il mondo esterno e, ovviamente, di difendere sé stesso dai pericoli.
La posizione depressiva compare successivamente, quando l’Io è sufficientemente integrato ed in grado di tollerare l’ambivalenza della compresenza di aspetti buoni e cattivi all’interno dello stesso oggetto, che ora è visto come un’unità. Ora la separazione non è più tra buono e cattivo, ma tra sé e mondo esterno: in tal modo, gli oggetti acquistano una loro autonomia (mentre prima erano imbevuti delle proiezioni paranoidi), ed il soggetto è in grado di tollerarne l’assenza.
Nel tentativo di far fronte all’assenza degli oggetti, il soggetto se ne forma un’immagine mentale, accedendo così alla facoltà della simbolizzazione. L’affetto che caratterizza questa posizione è il senso di colpa, per gli attacchi portati in fantasia, durante la posizione schizoparanoide, alle parti cattive degli oggetti che ora sono accettati come ambivalenti. Se nella posizione schizoparanoide l’ansia centrale era che l’Io venisse annientato dagli oggetti cattivi, nella posizione depressiva l’ansia centrale è che l’Io possa distruggere gli oggetti attraverso gli istinti aggressivi, ora accettati come propri.
Le difese che caratterizzano questa posizione sono dunque la repressione, la riparazione e la mania. Da un punto di vista adattivo, la posizione depressiva permette di accedere, oltre che alla simbolizzazione, anche all’empatia ed alla temporalità (dato che la posizione schizoparanoide è essenzialmente atemporale, laddove in quella depressiva, grazie alla simbolizzazione dell’oggetto assente, se ne percepisce la continuità nel tempo).
La posizione schizoparanoide e la posizione depressiva si presentano in maniera sequenziale nei primi mesi di vita, ma il termine posizione è stato scelto perché, come notato da Bion, per tutta la vita la mente umana oscilla tra questi due stati, passando ora all’uno, ora all’altro.
La posizione schizoparanoide, come già notato, permette di suddividere ed ordinare il mondo, e di difendersi dai pericoli esterni, ma quando diventa possibile tollerare l’ambiguità, si accede alla posizione depressiva, nella quale le categorie e le suddivisioni create nella posizione precedente vengono collegate e integrate. Quando l’ambivalenza diventa intollerabile, il soggetto riaccede alla posizione schizoparanoide, e il processo ricomincia. A questo processo viene dato il nome di oscillazione tra posizione schizoparanoide e posizione depressiva (PS↔D).
A livello adattivo, possiamo ritrovare l’oscillazione PS↔D ad esempio nel processo di apprendimento visto come un continuo oscillare tra assimilazione di nuove nozioni ed esperienze ed accomodamento delle stesse. Nella posizione schizoparanoide infatti, come accennato prima, l’Io tende a proiettarsi all’esterno attraverso la proiezione, in un tentativo di dominare e controllare la realtà: come “effetto collaterale” dunque il soggetto tenderà a proiettarsi verso l’esterno acquisendo così nuove conoscenze ed esperienze. Nella posizione schizoparanoide, però, si tende più a dividere e categorizzare che a integrare e collegare, funzioni queste invece assolte dalla posizione depressiva, che quindi favorirà l’elaborazione delle nozioni apprese durante la posizione schizoparanoide.
Il complesso edipico è caratterizzato da una particolare costellazione di rapporti interpersonali che si presenta in seguito all’acquisizione della posizione depressiva (nella quale le relazioni diventano possibili, in quanto gli altri sono visti davvero come “altri”). Nel complesso edipico il soggetto si ritrova per la prima volta in una situazione triadica, nella quale al precedente rapporto diadico con la figura materna si aggiunge la figura paterna. Questo “terzo incomodo” viene percepito come un elemento di disturbo nell’armonia della relazione diadica, ed il soggetto sperimenterà ansie di esclusione (dalla coppia genitoriale) e paure di ritorsione (da parte della figura paterna, attaccata in fantasia per garantirsi l’esclusività del rapporto con la figura materna).
Le difese tipiche consistono nell’identificazione con l’aggressore (e cioè con la figura paterna, per evitarne le ritorsioni), e nel fantasticare, usando diniego, repressione e idealizzazione, che i genitori formino un’unità, il che attenua le ansie di ritorsione da parte dell’“altro” che, in fantasia, non esiste.
Nel complesso edipico si gettano le basi di affetti come la gelosia, la solitudine e la deprivazione (nel senso di sentirsi privati di qualcosa a cui si avrebbe diritto, e cioè l’esclusività dell’amore materno). Da un punto di vista adattivo, durante il periodo edipico si acquistano la capacità di provare passione e desiderio sessuale e di stabilire rapporti basati sulla mutualità e la collaborazione.
Durante il periodo edipico vengono inoltre estremamente sollecitati gli aspetti competitivi della personalità del soggetto ed è verosimile che le vicissitudini edipiche contribuiscano a gettare le basi delle modalità in cui il soggetto tenderà ad affrontare il conflitto per tutto il resto della sua vita.